Per l’Assessorato alla Cultura del Comune di Trento
Articolo richiesto con lettera del 6 maggio 2002 per il progetto
“Montagne di Pace” del Servizio Cultura del Comune di Trento
Bamako
Il Sahara non è solo sabbia e, contrariamente ad una nostra visione romantica, le montagne sono più frequenti delle dune.
E’ il caso del massiccio dell’Adrar degli Iforas, un arcipelago di rocce e creste basaltiche che emergono dal Tanezrouft, il “ deserto della morte “ e che coprono un’area geografica pari a quella della Svizzera tra la Repubblica del Mali e l’Algeria. Le sue valli, un tempo rigogliose e solcate da fiumi perenni, videro transitare popoli, carovane, mercanzie ed eserciti e sono state una delle vie di irradiazione culturale e di penetrazione economica delle tribù berbere dell’antica Africa mediterranea.
Tra queste i Tuareg sono il gruppo etnico più omogeneo e potente: circa un milione di nomadi cammellieri che, per effetto delle frontiere coloniali arbitrarie, si sono trovati sottoposti alla giurisdizione di quattro stati diversi, cioè l’Algeria, la Libia, il Niger e il Mali. Mal sopportando i soprusi, le discriminazioni e le vessazioni dei nuovi governi centrali del Niger e del Mali, che essendo negro-africani, sono passati dalla condizione di schiavi a quella di padroni, i Tuareg hanno tentato varie rivolte,ma senza successo.
Il più noto degli esponenti politico-militari dei guerriglieri, Mano Dayak, che doveva morire in un misterioso incidente aereo, spiegò che l’esasperazione della sua gente era giunta al colmo per l’emarginazione sociale ed economica durata trent’anni, durante i quali i Tuareg sono diventati i naufraghi del deserto, senza aiuti, senza mandrie annientate dalla siccità, senza alcun soccorso internazionale che veniva sistematicamente requisito dalle autorità locali, senza ospedali, senza scuole e senza pozzi.
Nel 1990 i focolai di ribellione si trasformarono in un vero e proprio conflitto armato generalizzato, dalle montagne dell’Air nel Niger all’Adrar nel Mali, con decine di migliaia di morti da ambo le parti, atrocità e sofferenze spaventose per i civili arabo-berberi che ne spinsero più di un milione a cercar scampo in Mauritania, in Algeria e nel Burkina Faso.
Le montagne erano diventate delle cittadelle naturali inespugnabili anche per il più moderno degli eserciti regolari, ma tutto il resto del paese era contro gli insorti, a tal punto che in molte regioni del Sahel si formarono delle milizie popolari chiamate “gandakoi” (i padroni della terra) per affiancare le truppe governative.
Dopo vari accordi di pace rimasti lettera morta e cinque anni di guerra la mediazione dell’Algeria e della Francia è pervenuta ad ottenere una “pace dei bravi”, cioè senza vincitori né vinti, ma con serie garanzie di autonomia regionale e di equità socio-economica per le tanto provate popolazioni vestite di blu… Senonché gli avvenimenti bellici hanno comportato una grave perdita di identità culturale per i 400.000 tuareg del Mali e i 450.000 del Niger.
La sedentarizzazione forzata, la carestia e le distruzioni hanno trasformato gli indomiti cavalieri velati del Sahara in una moltitudine di assistiti, di autisti e di guardiani nelle imprese straniere, di muratori, di venditori di oggetti artigianali e di guide turistiche. Tutto ciò che per tradizione atavica costituiva un disonore e un’impensabile decadenza sociale. E si è anche saputo di donne tuareg che si sono lasciate morire di fame sotto un’acacia o negli anfratti di un uadi piuttosto di prostituirsi in città.
Emblematica l’iniziativa di un giovane iforas che a Gao ha allestito un piccolo museo etnografico con gli oggetti dei suoi familiari scomparsi. Nel cortiletto d’ingresso ha affisso un cartello dove si legge: “ Il dramma del Sahel è totale e noi ne siamo testimoni spesso passivi e indifferenti. In tale tragico contesto quale ragione può avere un museo tuareg? Quella di ricostituire, conservare e far conoscere a chi passa ciò che sta diventando un amaro ricordo: accogliere, tramandare e diffondere le testimonianze culturali non ancora scomparse ma che ormai lo saranno ineluttabilmente”.
Milano, 1° giugno 2002
Attilio Gaudio