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- Giovedì, 08 Giugno 2017 15:56
*Associazione di solidarieta' internazionale per il volontariato nella cooperazione partenaria allo Sviluppo Umano nel Nord e nel Sud del Mondo
In ventisei scatti selezionati, il regista, fotografo e produttore veneziano Lucio Rosa ha immortalato alcuni gruppi etnici di Congo, Kenia, Etiopia, sempre meno numerosi e probabilmente in pericolo di estinzione.
Sono i Dassenech, i Pokot, gli Hamer, i Babinga che popolano la mostra fotografica "Con l'Africa nel cuore" che, inaugurata il 28 ottobre 2016 a Licodia Eubea (Catania), si potrà ancora visitare sabato 26 e domenica 27 novembre dalle 17 alle 21. L'evento è contestuale all'apertura della VI edizione della Rassegna del Documentario e della Comunicazione archeologica di Licodia Eubea (Sicilia) (vedi https://archeologiavocidalpassato). Nella foto, il regista con il direttore artistico.
La Rassegna si chiuderà con un bilancio positivo, dichiarano i direttori artistici Lorenzo Daniele e Alessandra Cilio, mentre è già stato consegnato al toscano Piero Pruneti, direttore di Archeologia Viva, il premio "Antonino Di Vita". Questo archeologo siciliano di fama internazionale, scomparso nel 2011, ha sempre visto in Licodia Eubea il suo "luogo dell'anima".
Invece il luogo dell'anima di Lucio Rosa è sempre l'Africa, soprattutto da quando, negli anni '80 vi realizza reportage cinematografici e fotografici su incarico delle Agenzie delle Nazioni Unite. Così, le etnie rappresentate in questa mostra rivivono per i nostri occhi e cuore, grazie alle immagini di Lucio, il loro speciale, millenario, prezioso rapporto simbiotico con l' ambiente da cui sono nate e in cui cercano ancora di sopravvivere, malgrado (o forse con) il turismo e le "ruspe" del progresso. (M.C.G.)
Settembre 2015 - La scienza non è dogmatica, ogni ipotesi deve essere considerata “vera” fino a quando non si dimostra il contrario. Così, mentre ci si interroga ancora sul colore della pelle dei Faraoni e dei loro sudditi (erano neri?), una nuova specie del genere Homo, con caratteristiche primitive e moderne insieme, è stata scoperta in Sudafrica. Un ritrovamento che potrebbe far riscrivere la storia dell'evoluzione della nostra specie?
Browning et al./Cell - Il grafico mostra le migrazioni dei Denisoviani in Asia e Oceania, e ipotizza genomi misti con Neandertaliani e sapiens moderno.
Infatti, da quando è stato analizzato nel 2010 il genoma dell'Homo di Denisova (a partire da pochi fossili: una falange e due molari), sappiamo che alcune popolazioni dell'Oceania (Papua, Nuova Guinea, isole Cercanas) contengono nel loro DNA il 5% di quello di Denisova. Anche le popolazioni dell'est e del sud dell'Asia contengono lo 0,2% del DNA denisoviano, ma sembra che questo sia dovuto a migrazioni (e quindi incroci) delle popolazioni oceaniche verso il continente.
Uno studio, pubblicato dalla rivista Cell, ha effettuato le sue ricerche in merito grazie ad un nuovo metodo di analisi, basato sui dati dei progetti "UK10K, 1000 Genomi e Differenze dal Genoma Simons" (specie di catalogo di genomi di 300 individui appartenenti a 142 diverse popolazioni). Quindi gli umani moderni (Homo sapiens sapiens, Neandertal e Denisova) sono esistiti nelle stesse epoche, incrociandosi e scambiandosi porzioni di DNA. Ma erano umani geneticamente diversi, pur avendo un antenato comune (che si pensa sia esistito per un milione di anni, e sia originario del continente africano).
Quanto a Spagnoli e Italiani, abitanti nell'estremità meridionale dell'Europa, si può affermare che nel loro DNA non esistono geni denisoviani, e che la percentuale di geni Neandertaliani è molto bassa (in base ai 5.639 individui esaminati).
Da Padre Silvano Galli (conosciuto in Costa d'Avorio tanti anni fa) ricevo regolarmente le interessanti "cronache di Kolowaré" *. Questa volta pubblico quasi integralmente (in due puntate) il suo messaggio con relativa cronaca e foto.
Hanno appena lasciato Kolowaré. Quattro dottoresse, una infermiera, due dentisti, e il capo gruppo dell’AVIAT, di cui il gruppo fa parte, il ginecologo Gianfranco Mirri. Tutti dell’Emilia Romagna. La loro presenza ha coinciso con l’operazione della cataratta per un centinaio di persone.
Due dottoresse del gruppo hanno voluto anche fare un gesto molto concreto, oltre al loro lavoro di medico a Kolowaré e altrove. Hanno finanziato un “forage”, cioè una trivellazione, per un pozzo, con annessa pompa. E hanno potuto assistere alle varie fasi dei lavori. E il giorno dopo sono ritornati nel villaggio per una giornata di cure, di assistenza, di visite agli ammalati del villaggio e dintorni. Qualche nota e foto su questo dono che l’AVIAT, ancora una volta, ci ha fatto. (segue)
*Silvano Galli - Paroisse St Léon IX - Kolowaré
300 - B.P. 36 SOKODE -TOGO
I Martedì del mondo sono un ciclo di incontri (ottobre-giugno), che si tengono di norma il primo martedì di ogni mese, organizzati da Fondazione Nigrizia, dal Centro missionario diocesano, dalla rivista Combonifem e dal Cestim - Centro studi immigrazione.
(Fonte: Missionari Comboniani - Vicolo Pozzo 1 - 37129 - Verona - Italia www.fondazionenigrizia.it - www.nigrizia.it )
Se tutti conoscono il significato della parola ecologia (dal greco casa, ambiente e discorso, studio), delle sue branche scientifiche e dei vari termini derivati, l’ecocidio può apparire misterioso. Anche perché tra i primi significati su internet si trova un concetto minaccioso (espresso da Jeremy Rifkin nel suo saggio omonimo): “ascesa e caduta della cultura della carne”. In realtà ecocidio significa distruzione dell’ambiente naturale, danno ambientale esteso. E Rifkin, partendo dalla sacralizzazione dei sacrifici umani e animali, basandosi su dati antropologici, ecologici, economici, afferma che l’evoluzione del consumo della carne nei paesi occidentali industrializzati porta malattie, enormi squilibri ambientali, spreco di grandi quantità di cereali, aumento di povertà e fame nei paesi del terzo mondo. Anzi, studiando in particolare l’evoluzione della geografia agricola della Francia, ritiene che la propensione ecocida della popolazioni rurali prima della Rivoluzione Francese abbia coinciso che la prima ondata sconsiderata dell’industrializzazione moderna
. Siccità in Somalia (foto Attilio Gaudio, circa 1960)
Di modello di sviluppo ecocida si parlerà martedì 07 febbraio 2017 a Verona (Nigrizia, Sala Africa dei Missionari Comboniani, Vicolo Pozzo 1 – ore 20,30). Ad affrontare il tema sarà Stefano Squarcina, esperto di politiche ambientali e di cooperazione allo sviluppo, in particolare con l’Africa. Le attività economiche umane rappresentano sempre più un pericolo per la sopravvivenza dei viventi e del pianeta stesso. E’ urgente mettere in pratica le misure sottoscritte da oltre 190 paesi dell’ONU negli accordi di Parigi nel 2015. In precedenza, infatti, lo Statuto di Roma (Art.8, 2b, iv) della Corte penale internazionale (firmato nel 1998, entrato in vigore nel 2002 e modificato nel 2010) non aveva incluso l’ecocidio tra i “crimini internazionali contro la pace” insieme al genocidio; si erano opposti Regno Unito, Usa e Paesi Bassi. I danni “diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale” erano stati inseriti tra i crimini di guerra. Quindi l’ecocidio sarebbe un crimine in tempo di guerra ma non in tempi di pace.
Ma i rifugiati climatici nel mondo sono ormai più di 180 milioni. Deforestazione, siccità, distruzione delle zone umide, erosione dei suoli e conseguente ulteriore impoverimento delle popolazioni hanno raggiunto in Africa dei livelli di criticità mai conosciuti nella storia dell’umanità. Durante l’incontro di Nigrizia verranno discusse misure per combattere il “debito climatico”, azioni a favore della “giustizia climatica” (ad esempio riorientamento della fiscalità a fini climatici o transizione energetica), nuove forme e meccanismi di finanziamento della politica di cooperazione internazionale, soprattutto europea, verso l’Africa e altre aree del pianeta. Occorre ripensare le politiche di intervento nei paesi impoveriti, favorire un’agricoltura sostenibile, la decarbonizzazione dell’economia, la protezione e democratizzazione dell’uso delle risorse idriche potabili e non, la lotta alle emissioni di gas ad effetto-serra, alla deforestazione, ecc... Il problema non presenta solo aspetti climatici, politici e macroeconomici, ma anche etici e sociali a tutti i livelli, come il land grabbing (acquisizione su larga scala di terreni agricoli soprattutto in paesi in via di sviluppo) la costruzione di grandi dighe, lo spostamento di grandi masse di popolazione, l’esproprio di aree tribali o di piccoli appezzamenti preziosi l’autosufficienza alimentare, la dipendenza dalle sementi ogm, le estese monoculture per la produzione di materie prime o biocarburante per i paesi ricchi, la delocalizzazione delle grandi industrie, persino i parchi nazionali con ambigua protezione di flora e faura ma con bracconaggio commerciale e privazione dei diritti di caccia tradizionali dei nativi … infine la globalizzazione.
I risultati dei lavori di un'équipe britannica (pubblicati sul quotidiano online The Independent) sembrano aggiungere nuove ipotesi alle teorie sull'evoluzione umana.
Nel sito archeologico di Attirampakkam, nel sud-est dell'India (60 km da Chennai, Tamil Nadu) sono stati scoperti strumenti antichi di almeno 385.000 anni, epoca che coincide con il periodo in cui questa tecnologia sarebbe stata utilizzata per la prima volta dall'uomo moderno in Africa. Finora si pensava invece che L'India avesse conosciuto questa tecnica tra 140.000 e 46.000 anni anni fa, con la migrazione dall'Africa dell'uomo moderno. Questa scoperta anticiperebbe questa migrazione dall'Africa verso l'Asia ad almeno 400.000 anni fa; sarebbe quindi più antica di quanto si pensava? Oppure gli ominidi indiani di quell'epoca hanno sviluppato una propria cultura del Paleolitico Medio? E ancora: si tratta di uomini moderni o di Neandertaliani o di altre specie arcaiche?
Rimangono quindi molti interrogativi, soprattutto per la mancanza di resti umani associati alle scoperte. Anche perché in passato si era parlato di utensili di un milione e mezzo di anni!
Mandibola di Mala Balanitza (Journal of Human Evolution- Mirjana Roksandic). Questa mandibola umana può far luce sul processo evolutivo della nostra specie nel Sud Europa durante l' era glaciale. La comunicazione è stata fatta un anno fa durante il primo congresso della Società Europea di Evoluzione Umana celebrato a Lipsia, ma gli studiosi sono stati a lungo incerti sulla datazione del reperto. La mandibola è stata scoperta in una delle numerose grotte carsiche del complesso di Mala Balanica (Balanitza), insieme a macro e micro-vertebrati ed una industria litica di tipo Modo 3 (o tecnica di Levallois, per cui le schegge ricavate dal nucleo della pietra non vengono scartate, ma lavorate e riutilizzate per usi specifici), il che può essere compatibile con il periodo musteriano dei Neanderthal (Paleolitico medio). Tuttavia le caratteristiche anatomiche del reperto umano si discostano molto dal tipo neandertaliano. Inoltre la radiodatazione con il metodo dell'uranio-torio indica 400-500.000 anni, mentre inizialmente si pensava circa 150.000 anni; quindi saranno necessarie nuove ricerche.
Tuttavia, se la datazione iniziale fosse corretta (fine del Pleistocene Medio o Ioniano, intorno a 165.000 anni) la mandibila potrebbe appartenere ad un individuo di una di quelle popolazioni dalle caratteristiche primitive che erano già radicate in Europa, ma che, all'arrivo dei Neanderthal, corsero a rifugiarsi a sud nella penicola balcanica, senza incontrarsi con i nuovi colonizzatori per forse un millennio.
L’archeologa Mercedes Versaci (Gruppo PAID HUM-812 del dipartimento di Preistoria dell’ Università di Cadice) ha scoperto – in una grotta della Sierra della Plata, punta meridionale della penisola iberica vicino a Gibilterra - una pittura rupestre che funge da indicatore solare. Una scoperta finora unica in Spagna. Stava preparando una tesi (dal titolo “El sol, símbolo de continuidad y permanencia: un estudio multidiscilpinar sobre la figura soliforme en el arte esquemático de la provincia de Cádiz”) nella zona intorno alla laguna de La Janda, (oggi a secco) nel comune di Tarifa, dove sono stati registrati circa trecento rifugi preistorici con pitture rupestri. In ventidue di essi appare una figura a forma di sole.
Ma nella Cueva del Sol (una piccolissima grotta di difficile accesso ma molto visibile) la studiosa ha scoperto un disco di 24 centimetri, geometricamente perfetto, con dodici raggi orientati verso il calar del sole. E l’unico raggio dipinto coincide con l’ultimo filo di luce del crepuscolo del solstizio d’ inverno. Quindi una specie di calendario agricolo per sapere quando le giornate avrebbero iniziato ad allungarsi e seminare, quando le piante sarebbero cresciute insieme al sorgere del sole più presto ogni giorno, quando ci sarebbe stato il raccolto, quando la terra avrebbe avuto un periodo di riposo. E questo ciclo si sarebbe compiuto al successivo solstizio d’inverno per ricominciare. Quindi una concezione del tempo circolare e una pittura rupestre risalente molto probabilmente alla preistoria recente, quando l’uomo già praticava l’agricoltura. Infatti le piante sono rappresentate in altre grotte con figure ramiformi e associate a idoli per rituali magici.
Fonte: europasur.es | 22.01.2017 - Red Española de Historia y Arqueologia
Lidia Cicerale (prima a sinistra, insieme ad Attilio Gaudio) nel 2000, in una delle biblioteche del deserto della Mauritania (foto Sam Selmou)
Il Centro Studi Archeologia African (CSAA - www.csaamilano.it ) ha ricordato con una giornata speciale "l'avventura umana e scientifica" di una persona che per trent'anni è stata l'anima e la mecenate di questo centro milanese, sito presso il Museo civico di Storia Naturale di Milano. Erano presenti in molti: gli innamorati dell'Africa e dell'archeologia, la famiglia commossa, e soprattutto i collaboratori, i co-fondatori del Centro, e gli studiosi che via via si sono inseriti ed hanno partecipato alle numerose missioni sul terreno, ricerche, congressi, seminari. "Sarà il nostro modo, hanno scritto gli organizzatori, per ricordare Lidia Cicerale e per presentare una serie di nuovi contributi alla storia dell’Africa e, più in generale, alla conoscenza della vicenda umana."
Hanno preso la parola Giulio Calegari e Giorgio Terruzzi, rievocando gli inizi e l'entusiasmo e la disponibilità di Lidia, e insieme a lei gli oltre 30 anni di vita del Centro Studi Archeologia Africana. Poi Gigi Pezzoli, attuale presidente del CSAA, ha presentato "Pierre Reinhard: un ricercatore francescano nel Nord Togo". Altri interventi hanno illustrato esplorazioni e ritrovamenti recenti nel Deserto Libico (Maria Emilia Peroschi e Flavio Cambieri) - il Gran Mare di Sabbia, GSS, e l'origine delle società moderne (Lorenzo De Cola) - il poggiatesta, confronto tra l'etnografia africana e l'antico Egitto (Franco Di Donato) - vita con una famiglia tuareg nell'oasi di Djanet, Algeria (Giovanna Soldini). E poi: Gilberto Modonesi: percezione del mondo nilotico da parte dei Romani - Itala Vivan: musei delle migrazioni, alle porte d'Europa (partendo dalla Porta d'Europa di Mimmo Paladino a Lampedusa) - Barbara Barich: il potere dell'immagine nella preistoria del Sahara. Infine Christian Dupuy (dell'Institut des Mondes africains) ha interpretato arti e società dell'Africa settentrionale in maniera molto interessante , parlando di una "médiation horizontale" (con la vita quotidiana, la sopravvivenza, tutto ciò che circonda l'uomo al suo livello) e la "médiation verticale", lo spazio virtuale del soprannaturale, del magico, del mistero.
E per concludere, Giulio Calegari, "armato" di uno strumento musicale (comprato da Lidia) che non ha potuto suonare per mancanza di corde, ha lanciato "sguardi spontanei e voli pindarici sull'arte rupestre", e proiettato immagini di graffiti rupestri eritrei, in cui compare lo stesso strumento.
Nuove scoperte in Spagna sono destinate a rivoluzionare la narrazione dell'evoluzione umana. Anche perché sino ad ora si pensava che il simbolismo fosse comparso in Africa, come segno caratteristico dell'Homo sapiens, che lo trasferì più tardi in Europa con le sue migrazioni.
"Nella preistoria è sempre una battaglia contro le vecchie idee", commenta Michel Lorblanchet (Centro nazionale della ricerca scientifica francese, CNRS, professore emerito all'università di Tolosa), che ha partecipato a queste ricerche, ora pubblicate sulla rivista Science. Già nel 2012 l'esperto di arte rupestre aveva sostenuto che le pitture più antiche nelle grotte europee erano state scoperte in Spagna, e avrebbero più di 40.800 anni. Rimaneva aperta però la questione se quest'arte rupestre del Paleozoico sia stata o meno opera di uomini di Neandertal.
Un'équipe internazionale (università di Southampton, istituto Max Plank di antropologia evolutiva, CNRS francese ...) ha esplorato, studiato ed eseguito datazioni in tre grotte spagnole: la Cueva de la Pasiega (Cantabria), di Maltravieso (Estramadura) e di Ardales (Malaga).
1) Cueva de la Pasiega, Cantabria (foto P. Saura)
Questo motivo a forma di scala stilizzata è in realtà un "segno" secondo l'antropologia culturale, un simbolo non riconoscibile dalla sola esperienza, ma il risultato di una convenzione sociale. Le linee rosse verticali risalgono quasi con certezza a 64.000 anni fa.
2) Cueva Maltravieso - Lo stesso si può dire per questa mano dipinta in negativo (a sinistra in situ, a destra fotografata con tecnica apposita), età minima 66.700 anni.
3) I Neandertal coloravano anche le grotte. Nella Cueva de Ardales (Malaga), le colorazioni in ocra rosso, sono state datate con il metodo uranio-torio: 66.000 anni
4) Infine nella Cueva de Maltravieso (Càceres- Estremadura) (Foto H.Collado), troviamo mani incise e dipinte (66.000 anni)
Più di sessantaseimila anni! La capacità squisitamente umana che unisce simbolismo, intelligenza creativa e linguaggio sarebbe forse nata molto tempo prima di quanto si pensasse? Eppure gli umani moderni (Homo sapiens sapiens) avrebbero abitato l'Europa solo circa 20.000 anni fa (per alcuni 40.000, provenienti da est), mentre l'Homo erectus avrebbe lasciato l'Africa 1,8 milioni di anni fa. Solo l'Homo sapiens neanderthalensis, ritenuto molto primitivo, abitava l'Europa. Allora chi può aver realizzato queste opere? Le pitture, rosse o nere, con rappresentazioni di animali, punti, figure geometriche con mani (forse anche posteriori alla datazione) si trovano in tre grotte distanti tra loro settecento chilometri; il che indica un sentire comune, la percezione di un simbolo, la "lettura" condivisa da umani intelligenti.
Questo significa che, se il sapiens moderno non c'era ancora, l'arte rupestre del Paleolitico è (sarebbe) da attribuirsi ai Neandertal, quell' Homo sapiens neanderthalensis che era l'unico abitante dell'Europa all'epoca (insieme ai Cro-Magnon provenienti però dal lontano oriente). Qualche studioso avanza già un'ipotesi: si tratterebbe di una sola specie di Homo sapiens con flusso genetico attraverso i continenti, tra "cugini", il sapiens antico e quello moderno. Del resto un'altra vecchia idea è crollata: i Neandertal non sono completamente scomparsi, sostituiti da H. sapiens sapiens. Oggi ciascuno di noi ha nel DNA il 2-3% di genoma neandertaliano, ma non tutti hanno la stessa porzione - quindi in totale si calcola che sia presente il 40-50% di DNA di Neandertal nell'umanità moderna.
Come afferma uno dei principali studiosi di questa ricerca, Dirk Hoffmann (Istituto Max Planck)," La nascita della cultura materiale simbolica ...è uno dei principali pilastri del nostro essere umani", e finora era stata attribuita ai Neandertal in Europa di circa 40.000 - 50.000 anni fa, e solo limitatamente agli ornamenti corporei.
Ma i primi manufatti simbolici, risalenti a 70.000 anni, sono stati trovati in Africa, e dall'Africa si stavano man mano diffondendo in tutta l'Europa presso i suoi abitanti dell'epoca: i Neandertal. Che non possono più essere considerati brutali e rozzi, incapaci di avere un comportamento simbolico. Invece bisogna riconoscere che sapevano creare immagini con un senso, scegliere i luoghi adatti, pianificare la sorgente di luce nella grotta, mescolare i pigmenti.
(M.C.G.)
Domenica 15 settembre è stato inaugurato dall'arcivescovo di Milano Monsignor Delpini il nuovo Centro Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere, Missionari dal 1850)* di via Monte Rosa, con nuovi spazi (teatro, biblioteca , caffetteria, negozio equosolidale) e il rinnovato allestimento del Museo Popoli e Culture.
Nuova sede, interattivo e multimediale, organizzato secondo criteri tematici e/o cronologici, questo museo conserva una collezione permanente di arte extraeuropea, con circa duecento oggetti provenienti da Asia, Africa, America Latina e Oceania, raccolti dai padri missionari. Come afferma padre Mario Ghezzi, per vent'anni missionario in Cambogia e attuale direttore del Pime, a Milano servono luoghi che parlino del mondo, attraverso gli occhi e gli oggetti dei missionari. Per l'arcivescovo Delpini questo museo è un luogo di incrocio fra orizzonti universali e culture locali, al fine di educare alla mondialità, aggiunge padre Brambillasca (superiore generale del Pime, la cui sede principale è ora trasferita da Roma a Milano).
Il museo è nato nel 1910 con il nome "Museo etnografico indocinese". Infatti i primi oggetti furono portati in Italia da padre Carlo Salerio, partito nel 1852 per la Papua Nuova Guinea con la prima spedizione missionaria del Pime, ma i bombardamenti aerei su Milano nel 1943 li distrussero quasi completamente. E' stato poi continuamente arricchito con nuove collezioni, oggetti spediti dai missionari, lasciti e donazioni. Negli anni '70 ha preso un nuovo nome: "Museo di arte estremo orientale e di etnografia", abbreviato nel 1998 con l'attuale nome. In particolare è possibile osservare in una vetrina il prezioso e antico atlante del Seicento del missionario gesuita Martino Martini, e soprattutto sfogliarlo virtualmente nella vetrina a fianco. La sezione più ricca proviene dalla Cina, con tessuti, ceramiche, bronzi, smalti, giade, avori, ricchi kimono; interessanti gli oggetti legati a buddismo, taoismo, induismo, o al culto degli spiriti, e infine i piumaggi brasiliani.
Infatti è stata allestita nella sala delle esposizioni temporanee del nuovo Museo la mostra "Il grido dell'Amazzonia": un viaggio nel polmone della terra e nelle sue culture indigene, anche attraverso alcuni oggetti della collezione di Raffaele Zoni. La mostra è visitabile fino alla fine di ottobre. (http://www.amazzonia2019.com).
Il giorno prima si era tenuto al Pime il convegno "Il grido dell'Amazzonia: Ricchezza, drammi e sfide di una regione in crisi", in preparazione al Sinodo dei vescovi in programma a Roma dal 6 al 28 ottbre p.v. Nel pomeriggio è stato poi presentato il libro "Viaggio in America Latina", curato da Alberto Caspani per l'Editrice Luni, sulle esplorazioni del brianzolo Gaetano Osculati che nell'Ottocento fecero conoscere l'Amazzonia in Italia. Osculati, dopo aver viaggiato in Egitto, Siria, Arabia e Asia minore , si dedica all'America meridionale, e negli anni 1834-35-36 la attraversa da Montevideo a Santiago e Valparaiso; poi nel 1847-48, sulle orme dello spagnolo Francisco de Orellana del 1500, attraversa per via fluviale l'America Equatoriale dall'Atlantico al Pacifico.
E infine una testimonianza diretta: il bergamasco mons.Giuliano Frigeni, missionario del Pime e vescovo di Parintins, ha raccontato la sua esperienza in Amazzonia, dove vive da ormai quarant'anni.
*Via Monte Rosa 81 - 20149 Milano
Tel. 02 438221 - Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. - www.pimemilano.it - www.museopopolieculture.it
Scrive Padre Galli: VISITE DALL'ITALIA
Ancora una volta il Centro Sanitario di Kolowaré ha ospitato un gruppo di medici e dentisti dell’AVIAT (Associazione Volontari Italiani Amici Togo). Questo organismo aveva già provveduto, qualche anno fa, ad allestire un gabinetto dentistico nel Centro, ed ora è perfettamente funzionante. Questo ambulatorio continua la sua attività con un tecnico dentista formato dai dentisti italiani. Questa volta il gruppo era numeroso: presente il responsabile, dottor Gianfranco Mirri, due dentisti, Alessandro e Denis, quattro dottoresse e una infermiera. Con loro erano presenti alcuni oculisti locali che hanno operato un centinaio di pazienti di cataratta. Tutte le spese, intervento, medicine, vitto e trasporto per medici e ammalati, sono stati presi in carico dall’AVIAT.
Operati in attesa di controllo - Pazienti in attesa
Il gruppo si è installato al Centro Sanitario, guidato dalla nuova responsabile suor Claire. Il primo giorno hanno lavorato solo la mattinata. Nel pomeriggio siamo andati tutti in un villaggio della parrocchia di Affem Kabyè, ad una cinquantina di km da Kolowaré, per vedere i lavori di scavo per un pozzo, offerto da due dottoresse. Le macchine trivelle erano già sul posto e al lavoro dal mattino. Ad una settantina di metri hanno trovato una roccia, perforata, e da sotto è zampillata una polla d’acqua talmente importante, limpida e pulita, che tutti si sono messi ad applaudire.
Ad Affem per il rinfresco- E l'acqua esce in abbondanza
Padre Roberto, il parroco, ci ha poi condotto ad Affem dove, in un parco allestito nel terreno della parrocchia, ha offerto a tutti un rinfresco con pollo arrosto e frittelle di ignami. Affascinati dal posto e dall’ambiente i dottori hanno deciso di venire, il giorno dopo, a curare gli ammalati del luogo. Siamo poi ritornati sul luogo del nuovo pozzo e l’acqua fluiva abbondante. E così martedì 9 novembre tutti i medici, meno i dentisti, sono tornati ad Affem per offrire cure e medicine gratis a tutti.
Con Gamal accanto al nuovo pozzo - Bambino appena operato
La voce della loro presenza si era diffusa. Il villaggio di Atchibodow è venuto a chiedere di fare una trasferta anche da loro. Giovedì 11, accompagnati da Jean, l’infermiere del Centro, si sono recati al villaggio. Fine mattinata passo a trovarli. I pazienti gremivano la piazza della Chiesetta. Era certamente molto laborioso avere un’attenzione particolare per ogni paziente.
Dentisti al lavoro
Arte africana? Solo la seconda foto! che ritrae alcune (tra le migliaia) opere d'arte africane raccolte ed esposte da Adolfo Bartolomucci nella sua galleria milanese*. La prima invece è arte alpina, della Val Gardena, dove la scultura lignea fa parte della tradizione secolare, e l'artista è Adolf Vallazza, scultore di fama mondiale. Nei due casi: arte o artigianato oppure entrambi? non ha importanza, il risultato è sempre qualcosa che evoca passato e presente, stupisce, emoziona, risveglia tutti i sensi. Protagonista è sempre il legno.
(foto Lucio Rosa) (foto Mila C.G.)
L'artista africano sceglie il suo albero in funzione dell'oggetto da scolpire; così statua, maschera, feticcio, totem sarà il veicolo attraverso il quale gli spiriti, le divinità, gli antenati e le forze della natura si rendono presenti e visibili nello spazio umano. Gli oggetti di utilità quotidiana, quali spole per tessere, ciotole, sgabelli, sedie, alzatesta, strumenti per la cucina, sono fabbricati con molta cura. Per ogni settore della cultura esistono una serie di simboli e di stili specifici, compresi dalla comunità.
Anche l'artista alpino, "vive del legno, nel legno, parla con il legno...". Per questo il regista Lucio Rosa, bolzanese, gli ha dedicato il film** "Adolf Vallazza, sciamano del legno antico" presentandolo con queste parole: " Il bosco, silente e ordinato, i tronchi ravvicinati e umidi si sono affidati ad Adolf Vallazza. Un viaggio assorto e pieno di attese finisce nei linguaggi e nelle forme dell'uomo contemporaneo. L'artista non interroga la materia - che è già sua - ma il genio dei luoghi che l'ha generata. Con lui tesse il dialogo serrato che porta alle trasformazioni dei legni, programma i loro destini futuri e in loro soffia il suo spirito."
Lo sciamano viene generalmente considerato come un guaritore e un mediatore tra il mondo conosciuto della realtà ordinaria e il mondo spirituale. L'arte di Adolf Vallazza può essere antropologicamente considerata sciamanica, perchè lavora legni antichissimi, a volte secolari, recuperati nelle case contadine delle sue valli: vengono dalle pareti delle stube, hanno visto la storia, passare tante generazioni e vicende, i vivi e i morti; sono corrosi, consumati, mangiati dalle tarme, con i segni delle scarpe chiodate dei contadini, che hanno camminato su di loro per anni e anni. Anche il colore varia a seconda della loro vita. Ci sono i legni grigi, i bluastri che hanno preso la pioggia, e quelli rossi, che sono bruciati dal sole. E' come un "viaggio" nel passato e in altre tradizioni la scultura in questi legni, che hanno vissuto e trasmettono "messaggi" dai mondi spirituali invisibili alla realtà. E poi ci sono le leggende nei paesi delle montagne, le Dolomiti; "anche se astratte, le mie sculture, afferma Adolf, rispecchiano queste suggestioni. È il mio ambiente, la mia storia che mi ha dà l’ispirazione per la scultura. "
Il Maestro Adolf Vallazza nasce nel 1924 ad Ortisei. Il padre è scultore in ferro; il nonno materno, Josef Moroder Lusenberg, è un pittore. Adolf fin da piccolo ama le arti e il disegno e intaglia il legno. Negli anni quaranta e cinquanta inizia lavorare il legno dell'ulivo; per mantenere la famiglia e per passione diventa artigiano, con una ditta e sette operai. Crea statue per le Vie Crucis, crocifissi, sculture religiose della tradizione gardenese. Ma si ritaglia del tempo per studiare e fare ricerche, apre il suo studio di scultore ad Ortisei, e abbandona il legno dell'ulivo perchè lo considera di per sè già "un'opera d'arte della natura". Le prime sculture sono classiche, poi comincia a sperimentare forme stilizzate e materiali nuovi, fino alle opere che l'hanno reso famoso, i Totem e i Troni. Ha quasi quarant’anni e infine può dedicarsi solo all’arte. Passa all'astratto, ispirato da Marino Marini, Henry Moore, e soprattutto dal grande Constantin Brâncuși, maestro per la sua semplicità, la capacità di ridurre i volumi, l’iconografia delle “colonne”. Sono gli anni '60; inizia ad allestire le sue prime mostre personali in Italia e all'estero. Nel 1968 cominciano a frequentare il suo studio d'artista importanti critici milanesi, come Marussi, Budigna e Mascherpa.