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- Giovedì, 08 Giugno 2017 15:56
*Associazione di solidarieta' internazionale per il volontariato nella cooperazione partenaria allo Sviluppo Umano nel Nord e nel Sud del Mondo
Una vertebra umana preistorica, datata 1,5 milioni di anni, è stata scoperta nel nord di Israele, nella valle del Giordano, a Ubeidiya, dagli archeologi della Università Bar-Ilan, diretti da Alon Barash, insieme al Collegio Accademico Ono, l’Università di Tulsa e l’Autorità delle Antichità di Israele. Importante scoperta, che dimostra l'esistenza di ondate migratorie diverse "out of Africa". Infatti é il secondo fossile arcaico di ominide trovato al di fuori dell’Africa; i più antichi risalgono a 1,8 milioni di anni fa e sono stati rinvenuti a Dmanisi, in Georgia.
Vertebra, Ubeidiya (Israele)- foto a) superiore b) posteriore c) inferiore d)frontale (Dr. Alon Barash, Università Bar-Ilan)
La storia di questo osso inizia nel 1959, quando un agricoltore del Kibbutz Afikim, lavorando un terreno in una zona che non era ancora riconosciuta preistorica, portò alla luce alla luce alcune ossa, inclusi un teschio e alcuni denti. Gli scavi iniziarono nel 1960, e nel 1966 l’archeologo Moshe Stekelis trovò questa vertebra, che fu messa in una scatola con la scritta "Homo?" e dimenticata. Dopo vent’anni, la paleoantropologa dell’Università di Tulsa, Miriam Belmaker, che stava lavorando sulla ricostruzione del paleoclima dell’Ubeidiya preistorica, rianalizzò tutti i fossili trovati nel sito. E, scoprendo quel pezzo di spina dorsale, capì subito che non era una scimmia: il reperto, non completamente ossificato, è molto più grande anche di quello degli erectus africani. Secondo gli scienziati, poteva trattarsi di un caso di ossificazione ritardata, e in tal caso il bambino, pur restando un soggetto molto “robusto”, avrebbe avuto un’età compresa tra 6 e 12 anni alla morte, un'altezza presunta di un metro e mezzo, e un peso di 45-60 chili!
Tuttavia, da allora iniziò un incessante studio comparativo su tonnellate di vertebre di antichi ominidi, umani moderni, iene, rinoceronti, leoni, scimmie e altri animali sospetti. In conclusione, dopo aver fatto una comparazione delle tre vertebre presacrali inferiori (negli esseri umani moderni, nei Neanderthal, negli Australopitechi, e negli scimpanzé) e dopo aver escluso che si trattasse di un animale, gli scienziati hanno stabilito la giovane età dell’ominide in base alla parziale ossificazione. Il che fa però ipotizzare una possibile statura media in età adulta intorno ai 2 metri.
E' stata studiata anche la cultura materiale dei due siti, georgiano e israeliano. Mentre a Ubeidiya i manufatti di pietra e silice, le accette di basalto, gli utensili da taglio sono associati alla cultura acheuleana avanzata (Paleolitico inferiore), gli utensili di pietra di Dmanisi appartengono alla cultura olduvaiana primitiva (Paleolitico inferiore arcaico), risalente a ondate di migrazioni di ominidi arcaici durante il Gelasiano, il periodo più antico del Pleistocene.
Quindi le due diverse industrie sono state prodotte da due diverse specie umane arcaiche. E il bambino "gigante" della Valle del Giordano e l’Homo georgicus di Dmanisi non sarebbero della stessa specie. Il che significa che gli archeologi hanno scoperto una nuova specie, un anello mancante nell'evoluzione umana, e che le migrazioni in Africa avvennero in più ondate, in un lasso di tempo che le separa tra loro dai 200.000 ai 300.000 anni.?
Per Alon Barash non c'è dubbio: "Data la differenza tra le dimensioni e la forma di questa vertebra e quelle riscontrate in Georgia riteniamo evidente e senza equivoci la presenza di due ondate migratorie distinte". Da un altro punto di vista, la paleoantropologa Miriam Belmaker (Università di Tulsa) afferma in sintesi: Una delle principali domande rispetto alla diffusione umana fuori dall’Africa sono le condizioni ecologiche. In teoria si discute se gli antichi ominidi, lasciando le foreste africane, avessero preferito un habitat di savana o di bosco umido. La scoperta di due specie diverse a Dmanisi e Ubeida, concorda con un clima diverso: più umido e compatibile con quello mediterraneo vicino al lago, e più secco e boscoso nel Caucaso. Inoltre le due specie hanno prodotto due tipi di utensili di pietra diversi.
In conclusione l’antica migrazione umana dall’Africa verso l’Eurasia, di circa 1,8 milioni di anni fa (nel Caucaso, Repubblica di Georgia), non fu un evento unico, ma è stata seguita da una seconda, di approssimativamente 1,5 milioni di anni, in Israele a sud del lago di Tiberiade, il Mar di Galilea.
I risultati dei lavori di un'équipe britannica (pubblicati sul quotidiano online The Independent) sembrano aggiungere nuove ipotesi alle teorie sull'evoluzione umana.
Nel sito archeologico di Attirampakkam, nel sud-est dell'India (60 km da Chennai, Tamil Nadu) sono stati scoperti strumenti antichi di almeno 385.000 anni, epoca che coincide con il periodo in cui questa tecnologia sarebbe stata utilizzata per la prima volta dall'uomo moderno in Africa. Finora si pensava invece che L'India avesse conosciuto questa tecnica tra 140.000 e 46.000 anni anni fa, con la migrazione dall'Africa dell'uomo moderno. Questa scoperta anticiperebbe questa migrazione dall'Africa verso l'Asia ad almeno 400.000 anni fa; sarebbe quindi più antica di quanto si pensava? Oppure gli ominidi indiani di quell'epoca hanno sviluppato una propria cultura del Paleolitico Medio? E ancora: si tratta di uomini moderni o di Neandertaliani o di altre specie arcaiche?
Rimangono quindi molti interrogativi, soprattutto per la mancanza di resti umani associati alle scoperte. Anche perché in passato si era parlato di utensili di un milione e mezzo di anni!
Alcuni uomini dell'Africa Occidentale possiedono un DNA ibridato con un misterioso ominide sconosciuto, risultato da incroci di Homo sapiens con altre specie arcaiche esistenti migliaia di anni fa. Questo DNA è stato in parte trasmesso all'uomo moderno, unica specie sapiens attualmente vivente sulla Terra. Ora due scienziati dell'Università di California (Los Angeles) hanno trovato un altro DNA sconosciuto presso il popolo Yoruba, in Africa occidentale. Ricerca complicata dal clima caldo umido che altera lo studio di codici genetici.
Però, applicando il metodo statistico (secondo il Progetto 1000 genomi), Durvasula e Sankararaman hanno determinato che circa l'8% del genoma yoruba è riconducibile ad una specie arcaica "fantasma", percentuale variabile a seconda delle regioni (e quindi riconducibile a incroci con popolazioni diverse, fenomeni di deriva genetica, selezione di geni sfavorevoli, isolamento, migrazioni).
Chi può essere il fantasma? I ricercatori scartano i Pigmei (il cui codice, sequenziato, non coincide con quello degli Yoruba), i neandertaliani e i denisoviani (poco possibili geograficamente), e anche Homo naledi dal piccolo cervello (250.000 anni fa, nelle pianure sudafricane). Homo heidelbergensis (200.000 anni fa) rimane il candidato più probabile: probabilmente nato in Africa si ipotizza che si sia diffuso ed evoluto in quattro sottospecie. Homo heidelbergensis "heidelbergensis " includerebbe fossili africani ed europei, crani con architettura arcaica e caratteri derivati; H.heidelbergensis "rhodesiensis" sarebbe la varietà africana da cui sarebbe nato Homo sapiens; H. "daliensis" sarebbe la sottospecie asiatica non-herectus, comprendente l'Homo di Denisova; H.heidelbergensis "steinhemensis" che sarebbe la varietà europea pre-neanderthaliana, comprendente gli individui spagnoli della Sierra de los Huesos di Atapuerca. Questi resti spagnoli fanno ritenere che la separazione delle linee evolutive di H.sapiens sapiens, H.di Denisova e H.neanderthalensis risalga a quasi 1 milione di anni fa, mentre secondo la genetica la divergenza tra le tre tipologie sarebbe avvenuta circa 500.000 anni fa.
Con questo film, Il ragazzo con la Nikon * (vedi Libia 1), ovvero Libia, antiche architetture berbere, lo sguardo e la macchina fotografica di Lucio Rosa (archeologo, esperto di preistoria ed etnografia) si sofferma soprattutto su Ghadames, la romana Cydamus. Le prime notizie storiche risalgono al Regno di Augusto; fu occupata da Lucio Cornelio Balbo, diventando il punto più meridionale dell'impero romano, avamposto contro le tribù locali, Getuli e Garamanti. I Bizantini vi portarono il Cristianesimo e anche un vescovado. Poi nel VI secolo fu occupata dagli Arabi, che portarono l'Islam... ma l'atmosfera dell'antica città berbera è rimasta, coservata dagli anziani. Ghadamès è divisa in sette quartieri collegati ma autonomi, con propri edifici pubblici e mura; la sabbia si infiltra nelle fessure, nelle scarse aperture, si deposita nel viottoli. Così "il ragazzo con la Nikon" fa rivivere gli antichi quartieri e mercati, le ricche dimore, le torri e i minareti, i magazzini-fortezza per conservare i cereali, il labirinto di stradine sapientemente orientate per i venti e la luce. Incontra i rari passanti, che scivolano via quasi al buio, visita le abitazioni, ammira gli oggetti, le pareti bianche di calce con disegni geometrici berberi e simboli esoterici, sale sulle terrazze delle case, sotto il cielo, il regno delle donne.
Poi gli scatti immortalano il villaggio di Fursta: stretti sentieri si arrampicano sulle pendici del Jebel Nafusha, dove molti Berberi si installarono nel VII secolo in fuga dall'invasione araba. Case diroccate, porte divelte, un frantoio, una bianca moschea che risalta contro la nuda montagna; all'interno, le colonne allineate, dai capitelli bizantini recuperati, reggono ancora la volta dell'oratorio. A Gsar al-Haj restano poche testimonianze, a parte lo straordinario "castello berbero", costruito nel XIII secolo da Abdallah Abu Jatla. E' un originale magazzino a forma di anello, le cui mura contengono oltre cento cellette su più livelli. In basso, parzialmente interrato, si conservava l'olio: più in alto, raggiungibili con scale e passaggi sopraelevati, le altre derrate alimentari.
Anche la ricca oasi di Derdj è in rovina; l'imponente fortezza controllava dall'alta falesia a strapiombo sulla pianura il traffico di merci tra l'Africa Nera e il Mediterraneo. A Nalut invece è ben conservato il granaio per immagazzinare cereali e olio, una magnifica costruzione fortificata quattro secoli fa contro i Turchi. Infine Gsar Gharyan, a 600 metri di quota, con il suo "castello delle grotte". Le più antiche tribù berbere del'altopiano di Nafusah erano troglodite e scavavano case nel terreno alla profondità di 8-10 metri per proteggersi dal caldo e dal freddo: una serie di stanze e magazzini non più abitati, ma ancora oggi visitabili.
© Studio Film Tv (pubblicazione foto gentilmente autorizzata dall'Autore)
I Martedì del mondo sono un ciclo di incontri (ottobre-giugno), che si tengono di norma il primo martedì di ogni mese, organizzati da Fondazione Nigrizia, dal Centro missionario diocesano, dalla rivista Combonifem e dal Cestim - Centro studi immigrazione.
(Fonte: Missionari Comboniani - Vicolo Pozzo 1 - 37129 - Verona - Italia www.fondazionenigrizia.it - www.nigrizia.it )
Browning et al./Cell - Il grafico mostra le migrazioni dei Denisoviani in Asia e Oceania, e ipotizza genomi misti con Neandertaliani e sapiens moderno.
Infatti, da quando è stato analizzato nel 2010 il genoma dell'Homo di Denisova (a partire da pochi fossili: una falange e due molari), sappiamo che alcune popolazioni dell'Oceania (Papua, Nuova Guinea, isole Cercanas) contengono nel loro DNA il 5% di quello di Denisova. Anche le popolazioni dell'est e del sud dell'Asia contengono lo 0,2% del DNA denisoviano, ma sembra che questo sia dovuto a migrazioni (e quindi incroci) delle popolazioni oceaniche verso il continente.
Uno studio, pubblicato dalla rivista Cell, ha effettuato le sue ricerche in merito grazie ad un nuovo metodo di analisi, basato sui dati dei progetti "UK10K, 1000 Genomi e Differenze dal Genoma Simons" (specie di catalogo di genomi di 300 individui appartenenti a 142 diverse popolazioni). Quindi gli umani moderni (Homo sapiens sapiens, Neandertal e Denisova) sono esistiti nelle stesse epoche, incrociandosi e scambiandosi porzioni di DNA. Ma erano umani geneticamente diversi, pur avendo un antenato comune (che si pensa sia esistito per un milione di anni, e sia originario del continente africano).
Quanto a Spagnoli e Italiani, abitanti nell'estremità meridionale dell'Europa, si può affermare che nel loro DNA non esistono geni denisoviani, e che la percentuale di geni Neandertaliani è molto bassa (in base ai 5.639 individui esaminati).
Valle dell’Omo N°1
Giovane dell’etnia Karo davanti a un'ansa del fiume Omo; circa un migliaio di Karo vivono sulla sua sponda orientale (foto Lucio Rosa)
Nell’estremo sud-ovest dell’Etiopia, tra i grandi laghi dell’enorme spaccatura geologica della Rift Valley sopravvive forse ancora per poco l’ultima regione “autentica” del continente: una vasta area di monti, aride savane e affluenti del fiume Omo. Nel 1980 questa valle è stata inserita nell’elenco dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco per la sua straordinaria importanza geologica e archeologica. Qui sono stati trovati numerosi fossili di ominidi, soprattutto resti appartenenti al genere Australopithecus e Homo, insieme ad utensili di quarzite risalenti a circa 2,4 milioni di anni fa. Un’area che si pensa abbia rappresentato una culla per il processo di ominazione negli ultimi milioni di anni. Qui abitano almeno una trentina di etnie di grande importanza antropologica ed etnografica, la preistoria ai giorni nostri. Qui opera la cooperazione italiana e lavora la società Salini-Impregilo.
Eppure: accesso negato ai giornalisti di Nigrizia (numero di febbraio 2016). Luca Manes e Giulia Franchi erano in Etiopia ”per scrivere un reportage sul ruolo della cooperazione italiana nel secondo paese più popoloso d’Africa, con tassi di crescita fra i più alti al mondo, combinati con questioni interne che chiamare problemi è un eufemismo: fame, violenza, povertà ancora diffusa e un sistema politico basato su un monopartitismo di fatto”. Raccontano: “Avevamo scelto di visitare alcuni progetti per la riduzione del rischio nel settore acqua, localizzati nel sud, bassa valle dell’Omo. (…) Solo che nell’Omo i giornalisti non ci possono andare”. In realtà, ad Addis Abeba c’era il visto sul passaporto, l’accordo del governo federale, gli sforzi dell’ambasciata e della cooperazione italiana, anche l’intervento di un ministro. Poi è arrivato il via libera fino ad Arba Minch (nella Regione delle nazioni, nazionalità e popoli del sud – SNNPR) dove si trova il progetto Warka Water della cooperazione italiana; quindi il permesso di continuare il viaggio fino a Konso (sul fiume Sagan). Infine: impossibile proseguire per Omorate, all’ingresso della valle dell’Omo.
Stop non solo per i giornalisti, ma anche per i cineasti. Così è stato annullato il progetto di Lucio Rosa (Studio Film TV), regista impegnato da oltre quarantacinque anni nella realizzazione di reportages, programmi televisivi e documentari. Questo “regista veneziano, bolzanino d’adozione, (scrive Graziano Tavan, giornalista de "Il Gazzettino di Venezia") aveva deciso di lasciare per un momento le “pietre” e i successi ottenuti con i suoi film di carattere archeologico e di tornare a raccontare l’Uomo, o meglio la cultura originaria di alcuni gruppi tribali in Africa, non ancora contaminati completamente dagli uomini occidentali. Il nuovo progetto prevedeva la realizzazione di cinque film in Africa, ma l’avvio non è stato bene augurante: il primo, infatti, è stato annullato. Lontano, lungo il fiume – l’anima originaria delle tribù dell’Omo, già sceneggiato e per il quale le riprese dovevano essere realizzate in Etiopia tra agosto e settembre 2015, è rimasto lettera morta”.
Lucio Rosa in Etiopia durante la preparazione del film sulle tribù dell’Omo
Il motivo? ” Purtroppo ho dovuto rinunciare, ha dichiarato amareggiato il regista, per i folli prezzi che le autorità chiedono per rilasciare i permessi per le riprese dei gruppi tribali, trentamila dollari. Una follia per un film maker indipendente quale io sono (…) Questo film poteva rappresentare un’ultima testimonianza della cultura originaria di questi gruppi tribali come i Karo, Mursi, Hamer, Dassenach”, e continuare il lavoro etnografico di Lucio Rosa iniziato trent’anni fa, insieme alla moglie Anna, con documentari come Babinga, piccoli uomini della foresta (pigmei del nord della Repubblica Popolare del Congo), e Pokot, un popolo della savana in Kenia.
“In realtà, scrive Tavan, un modo come un altro per tenere occhi indiscreti lontano dai progetti perseguiti nell’area che evidentemente non hanno come obiettivo la conservazione di una delle culle dell’umanità, e il prosieguo delle ricerche antropologiche e paleontologiche nella valle dell’Omo”.
Il fiume Omo Bottego (dal nome dell’esploratore Vittorio che lo scoprì nel 1896, e vi lasciò la vita), nasce nell'altopiano etiopico e, passando, dai circa 2500 metri di altezza delle sorgenti ai 500 metri di altezza del lago, dopo 760 km di corsa impetuosa e poi di placidi meandri, sfocia con un delta nel lago Turkana (ex Rodolfo). L'Omo, serpeggiando nei vasti territori pianeggianti dell’Etiopia sud-occidentale, riceve numerosi affluenti (Gogeb, Wabi, Mago, Neri) ed attraversa i parchi nazionali di Mago e Omo, ricchi di fauna. Il territorio fa parte del Grande Rift dell’Africa orientale, un sistema di fosse tettoniche legate all’allontanamento di placche litosferiche. Un movimento divergente che, accompagnato da diffusi fenomeni vulcanici e sismici, provoca da oltre venti milioni di anni lo sprofondamento della crosta terrestre rispetto ai circostanti altipiani, e l’innalzamento delle montagne più alte dell’Africa, inclusi i monti Virunga, Mituba e Ruwenzori.
La Rift Valley africana ripresa dallo spazio. In tempi geologici sarà il fondo di un mare (http://www.vialattea.net)
Questo fondovalle, largo tra 30 e 100 metri, anticipa la formazione di un bacino oceanico africano, allontanando in futuro il Corno d’Africa dal grande continente. La Rift Valley, lunga almeno seimila chilometri, inizia nel nord della Siria, ospita il lago di Tiberiade, la valle del Giordano, la conca del Mar Morto, il golfo di Aqaba, poi prosegue con il Mar Rosso, la depressione di Afar (la Dancalia) e attraversa l'Africa orientale fino al lago Niassa (o Malawi) e al Mozambico, nella regione dei grandi laghi africani, che includono tra i più profondi laghi del mondo come il Tanganica, profondo fino a 1.470 metri. I ritrovamenti paleo-antropologici sono appunto legati all’attività vulcanica e tettonica responsabile della formazione di queste profonde depressioni e alla contemporanea sedimentazione legata all’intensa erosione dei rilievi, ma anche ai clasti e alle ceneri vulcaniche che hanno coperto rapidamente i resti animali e vegetali, permettendo così la fossilizzazione.
“La realtà nella bassa valle dell’Omo sta cambiando velocemente a scapito dei deboli della Terra, come sono i popoli che qui vivono, scrive Lucio Rosa su Archeologia viva. Un villaggio dei Karo che ho visitato recentemente, e che otto mesi prima era un villaggio vivo, posto al di sopra di un’ansa dell’Omo, praticamente non esiste quasi più, a parte qualche persona che si “imbelletta il volto” per accontentare qualche turista. È dal 2011 che il governo etiope dà in concessione a imprenditori stranieri enormi appezzamenti di terra fertile sottraendoli ai gruppi tribali e distruggendo i loro pascoli. Chi si oppone e fa resistenza subisce pestaggi e anche il carcere. Per l’Africa è una storia vecchia che si ripete. Sono aziende turche, malesi, finlandesi, olandesi, italiane, coreane, di mezzo mondo, specializzate nella coltivazione della canna da zucchero, cotone, palma da olio, mais per biocarburanti, che si sono accaparrate questi vasti territori. Si deforesta per fare spazio al grande progetto statale “Kuraz Sugar Project”, che sottrarrà un’area di 245.000 ettari ai territori dove vivono i gruppi tribali. Lungo le sponde del mitico Omo i bulldozer continuano a spianare terreni sterminati per le piantagioni che saranno irrigate con l’acqua del fiume. E conclude: E con l’estinzione dei gruppi tribali finirà anche il turismo culturale. Sono circa duecentomila gli indigeni che vivono qui. La loro esistenza è gravemente minacciata. La loro fine sarà un po’ anche la nostra”.
Foto Lucio Rosa
Mila C.G. (le foto di Lucio Rosa sono state gentilmente concesse dall’Autore)
Area del fiume Omo con evidenziate le tre dighe Gilgel I, II, III e la IV in programma. In piccolo, l’intera area dall’Eritrea al Kenya (rappresentazione non in scala) voices.nationalgeographic.com
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Il Museo Civico di Bolzano (via Cassa di Risparmio 14, ingresso libero) inaugura l'anno 2020 con Il regista Lucio Rosa e alcuni dei suoi film e documentari sull'Africa, nella sala delle stufe:
- mercoledì 15 gennaio 2020, alle ore 18.00 - BILAD CHINQIT (59’);
- giovedì 16 gennaio 2020, alle ore 18.00 - IL SEGNO SULLA PIETRA (59’);
- venerdì 17 gennaio 2020, alle ore 18.00 - BABINGA, piccoli uomini della foresta (25’) e a seguire: IL “RAGAZZO” CON LA NIKON (30’)
Anche la mostra fotografica verrà inaugurata quest’oggi alle ore 18 e resterà poi aperta con i seguenti orari: 10-12.30 e 16-19.30. Per Lucio Rosa si tratta di una preziosa occasione per proporre nella sua città il frutto di tanti anni di esplorazione dell’Africa, “armato” solo di macchina fotografica e cinepresa, un’attività iniziata ufficialmente proprio a Bolzano nel 1975, quando fondò assieme alla moglie Anna, sua collaboratrice, la casa di produzione Studio Film Tv. Una passione trasformata in lavoro, che ha dato all’autore parecchie soddisfazioni e premi in importanti festival internazionali.
BILAD CHINQIT, il paese di Chinguetti, è la Mauritania, regione nata dal Sahara, che per secoli ha fatto da confine tra l'Africa mediterranea e il Bilad Es Sudan, il paese dei Neri. film rievoca infatti le civiltà, gli imperi e le città che hanno avuto la Mauritania quale protagonista del mondo antico e medioevale. Nel Medioevo era un crogiolo di razze e culture, significava l'slam e le scienze, la filosofia. E ancora antichi manoscritti in lingua araba, le "università delle sabbia" o "università a cammello", il sapere di un popolo, e ancora sabbia . Lontana e profonda, segnata da grandi passaggi di civiltà, fin dal lontano Neolitico è la storia della Mauritania.
Il SEGNO SULLA PIETRA illustra la storia millenaria del Sahara, in un alternarsi di fasi climatiche estreme e di vicende di uomini che fecero di questa regione la loro dimora: 12.000 anni fa, dopo una fase di aridità estrema, ritornò la pioggia e la vita ricominciò a germogliare lentamente. In un Sahara fertile e verdeggiante, ricco di acqua, prosperarono gruppi umani che praticavano caccia, nomadismo e pastorizia. Così, nel Sahara centrale, sui massicci del Tadrart Acacus e del Messak, nel sud-ovest della Libia, si formarono le prime comunità, tenaci e vitali, culturalmente compiute, che riuscirono anche ad elevare a linguaggio pittorico il loro vissuto quotidiano.
BABINGA, (vedi in questo sito, maggio-giugno 2019: L'Africa che scompare, I Pigmei Babinga) i piccoli uomini della foresta, un vero documento che parla dei Pigmei che vivono, meglio vivevano secondo la loro cultura e tradizioni, nella foresta pluviale della Repubblica Popolare del Congo… ora ci sono ancora i Pigmei, piccoli uomini, ma la loro cultura si è frantumata. Non sono più i cacciatori-raccoglitori della preistoria, protetti dall' impraticabile foresta equatoriale africana. Il meticciato e il contatto con le tribù vicine, e con altre civiltà straniere, sta distruggendo habitat, cultura e tradizioni.
IL “RAGAZZO” CON LA NIKON (vedi in questo sito maggio-giugno 2019) è il regista stesso, che ha scattato migliaia di fotografie, appunto con la Nikon (che gli era stata regalata da ragazzo), nel corso degli anni fino all' “Ultima, nell’aprile 2013… poi il buio per questo splendido Paese”, ricorda con amarezza Lucio Rosa. Il 23 aprile 2013 il regista era appunto a Tripoli al ministero del Turismo e Cultura per firmare il contratto di un film su Ghadames, la grande oasi ai margini occidentali del Sahara libico nel punto d'incontro di Libia, Algeria e Tunisia. “Ma un attentato all’ambasciata francese ha bloccato Tripoli… fuggi fuggi… imbarco sul primo aereo per riornare in Patria, e il film, con la sceneggiatura e storyboard approvati, è finito nel cassetto. In attesa… Ad oggi è ancora lì, ricoperto dalla polvere del tempo… ma ancora vivo nelle mie intenzioni e speranza… ma verrà il giorno…” conclude il regista.
E' il titolo del nuovo film di Lucio Rosa (Studio Film TV, Bolzano)*, ovvero Libia, antiche architetture berbere, che il regista definisce "fatto con la testa e con il cuore e presenta con queste parole: "Le antiche oasi che gli Imazighen "uomini liberi", i Berberi di Libia, "vestirono" di una splendida architettura, oggi sono quasi tutte abbandonate e cadute nel degrado. È un mondo che sta scomparendo, non essendoci più grande interesse per il recupero e la conservazione della memoria e della storia. Inoltriamoci in questi luoghi, percorriamo queste strade, visitiamo quanto di prezioso rimane di un tempo antico: le architetture sublimi di antiche sontuose dimore, le elaborate architetture con cui si innalzavano magazzini fortificati, i villaggi che accoglievano i mercanti che, con le loro carovane, portavano i prodotti dell'Africa Nera verso i porti del Mediterraneo."
Questo film ci offre una visita speciale, accompagnati da un fotografo speciale,, con una serie di scatti che, meglio che in un film, fluiscono, a volte con progressivi ingrandimenti, consentendo di osservare i dettagli, accompagnati da preziose informazioni e una musica discreta e solenne. E' quasi un pellegrinaggio, in una regione speciale dal clima estremo in estate e in inverno: l'estremo nord-ovest della Libia, dove il Jebel Nafusha, alto 968 metri, (o Djebel Nefoussa - in arabo : ,الجبل نفوسة o al-Jabal Nefusa, in berbero nafusi: Adrar n Infusen) separa la pianura della Tripolitania dall'ardente Sahara. Qui abitano i Berberi Imdyazen, musulmani ibaditi generalmente considerati gli ultimi discendenti della terza branca dell'Islam, il Khârijismo.
«Durante le varie missioni svolte in Libia - spiega Lucio Rosa - per realizzare film e ricerche varie (e purtroppo solo fino al 2014 perché poi la Libia è diventata impraticabile) mi sono interessato all’ architettura berbera di diverse oasi, abitate e vissute dai berberi Imazighen fino ai primi anni ’80. Poi Gheddafi, volendo che la sua gente vivesse con i confort occidentali, ha costruito le nuove città in prossimità dei vecchi villaggi, e le vecchie oasi sono state quasi tutte abbandonate e sono cadute nel degrado. È un mondo che sta lentamente scomparendo non essendoci più grande interesse per il recupero e per la conservazione della memoria e della storia»
Ma chi è Il ragazzo con la Nikon?
Il regista stesso, che ha scattato migliaia di fotografie, appunto con la Nikon, nel corso degli anni, fino all' “Ultima, nell’aprile 2013… poi il buio per questo splendido Paese”, ricorda con amarezza. Il 23 aprile 2013 il regista era appunto a Tripoli al ministero del Turismo e Cultura per firmare il contratto di un film su Ghadames, la grande oasi ai margini occidentali del Sahara libico nel punto d'incontro di Libia, Algeria e Tunisia. “Ma un attentato all’ambasciata francese ha bloccato Tripoli… fuggi fuggi… imbarco sul primo aereo per riornare in Patria, e il film, con la sceneggiatura e storyboard approvati, è finito nel cassetto. In attesa… Ad oggi è ancora lì, ricoperto dalla polvere del tempo… ma ancora vivo nelle mie intenzioni e speranza… ma verrà il giorno…”
*Regia, fotografia, montaggio, testi: Lucio e Anna Rosa- Durata: 30' - Formato: Full HD 16:9
© Studio Film Tv
In ventisei scatti selezionati, il regista, fotografo e produttore veneziano Lucio Rosa ha immortalato alcuni gruppi etnici di Congo, Kenia, Etiopia, sempre meno numerosi e probabilmente in pericolo di estinzione.
Sono i Dassenech, i Pokot, gli Hamer, i Babinga che popolano la mostra fotografica "Con l'Africa nel cuore" che, inaugurata il 28 ottobre 2016 a Licodia Eubea (Catania), si potrà ancora visitare sabato 26 e domenica 27 novembre dalle 17 alle 21. L'evento è contestuale all'apertura della VI edizione della Rassegna del Documentario e della Comunicazione archeologica di Licodia Eubea (Sicilia) (vedi https://archeologiavocidalpassato). Nella foto, il regista con il direttore artistico.
La Rassegna si chiuderà con un bilancio positivo, dichiarano i direttori artistici Lorenzo Daniele e Alessandra Cilio, mentre è già stato consegnato al toscano Piero Pruneti, direttore di Archeologia Viva, il premio "Antonino Di Vita". Questo archeologo siciliano di fama internazionale, scomparso nel 2011, ha sempre visto in Licodia Eubea il suo "luogo dell'anima".
Invece il luogo dell'anima di Lucio Rosa è sempre l'Africa, soprattutto da quando, negli anni '80 vi realizza reportage cinematografici e fotografici su incarico delle Agenzie delle Nazioni Unite. Così, le etnie rappresentate in questa mostra rivivono per i nostri occhi e cuore, grazie alle immagini di Lucio, il loro speciale, millenario, prezioso rapporto simbiotico con l' ambiente da cui sono nate e in cui cercano ancora di sopravvivere, malgrado (o forse con) il turismo e le "ruspe" del progresso. (M.C.G.)
Se tutti conoscono il significato della parola ecologia (dal greco casa, ambiente e discorso, studio), delle sue branche scientifiche e dei vari termini derivati, l’ecocidio può apparire misterioso. Anche perché tra i primi significati su internet si trova un concetto minaccioso (espresso da Jeremy Rifkin nel suo saggio omonimo): “ascesa e caduta della cultura della carne”. In realtà ecocidio significa distruzione dell’ambiente naturale, danno ambientale esteso. E Rifkin, partendo dalla sacralizzazione dei sacrifici umani e animali, basandosi su dati antropologici, ecologici, economici, afferma che l’evoluzione del consumo della carne nei paesi occidentali industrializzati porta malattie, enormi squilibri ambientali, spreco di grandi quantità di cereali, aumento di povertà e fame nei paesi del terzo mondo. Anzi, studiando in particolare l’evoluzione della geografia agricola della Francia, ritiene che la propensione ecocida della popolazioni rurali prima della Rivoluzione Francese abbia coinciso che la prima ondata sconsiderata dell’industrializzazione moderna
. Siccità in Somalia (foto Attilio Gaudio, circa 1960)
Di modello di sviluppo ecocida si parlerà martedì 07 febbraio 2017 a Verona (Nigrizia, Sala Africa dei Missionari Comboniani, Vicolo Pozzo 1 – ore 20,30). Ad affrontare il tema sarà Stefano Squarcina, esperto di politiche ambientali e di cooperazione allo sviluppo, in particolare con l’Africa. Le attività economiche umane rappresentano sempre più un pericolo per la sopravvivenza dei viventi e del pianeta stesso. E’ urgente mettere in pratica le misure sottoscritte da oltre 190 paesi dell’ONU negli accordi di Parigi nel 2015. In precedenza, infatti, lo Statuto di Roma (Art.8, 2b, iv) della Corte penale internazionale (firmato nel 1998, entrato in vigore nel 2002 e modificato nel 2010) non aveva incluso l’ecocidio tra i “crimini internazionali contro la pace” insieme al genocidio; si erano opposti Regno Unito, Usa e Paesi Bassi. I danni “diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale” erano stati inseriti tra i crimini di guerra. Quindi l’ecocidio sarebbe un crimine in tempo di guerra ma non in tempi di pace.
Ma i rifugiati climatici nel mondo sono ormai più di 180 milioni. Deforestazione, siccità, distruzione delle zone umide, erosione dei suoli e conseguente ulteriore impoverimento delle popolazioni hanno raggiunto in Africa dei livelli di criticità mai conosciuti nella storia dell’umanità. Durante l’incontro di Nigrizia verranno discusse misure per combattere il “debito climatico”, azioni a favore della “giustizia climatica” (ad esempio riorientamento della fiscalità a fini climatici o transizione energetica), nuove forme e meccanismi di finanziamento della politica di cooperazione internazionale, soprattutto europea, verso l’Africa e altre aree del pianeta. Occorre ripensare le politiche di intervento nei paesi impoveriti, favorire un’agricoltura sostenibile, la decarbonizzazione dell’economia, la protezione e democratizzazione dell’uso delle risorse idriche potabili e non, la lotta alle emissioni di gas ad effetto-serra, alla deforestazione, ecc... Il problema non presenta solo aspetti climatici, politici e macroeconomici, ma anche etici e sociali a tutti i livelli, come il land grabbing (acquisizione su larga scala di terreni agricoli soprattutto in paesi in via di sviluppo) la costruzione di grandi dighe, lo spostamento di grandi masse di popolazione, l’esproprio di aree tribali o di piccoli appezzamenti preziosi l’autosufficienza alimentare, la dipendenza dalle sementi ogm, le estese monoculture per la produzione di materie prime o biocarburante per i paesi ricchi, la delocalizzazione delle grandi industrie, persino i parchi nazionali con ambigua protezione di flora e faura ma con bracconaggio commerciale e privazione dei diritti di caccia tradizionali dei nativi … infine la globalizzazione.
Sono stati scoperti, per caso e recentemente, nel nord dell'Arabia Saudita, provincia di Jawf, tre promontori di arenaria rosa che ospitano dei bassorilievi in forma di animali in grandezza naturale. Bellissimi. Sono stati studiati per la prima volta nel 2016 e 2017 dagli archeologi sauditi e dall'équipe di Guillaume Charloux, del laboratorio Orient et Méditerranée, che ne hanno inizialmente attribuito l'origine ai Nabatei (la cui cultura è geograficamente molto vicina). Non alle antiche tribù locali, anche se non è molto lontana l'oasi di Dùmat al-Jandakl, antico centro delle vie carovaniere, ormai in rovina. In effetti lo stile di questi dromedari si discosta "dalla tradizione della rappresentazione regionale, più schematica e in due dimensioni", ma si avvicina esteticamente alla famosa carovana scolpita nella città antica di Petra, in Giordania, dove i camelidi in fila sbucano di fronte al monumento funerario di Al-Khazneh.
Quindi la prima datazione colloca l'origine del Camel Site nell'Antichità, tra il primo secolo a.C. e il primo secolo d.C. Tuttavia Maria Gaugnin, esperta di arte parietale dell'università di Oxford, che ha studiato il sito nel 2018 insieme ad archeologi del Max Planck Institute, ritiene che questi animali (una dozzina di camelidi e due animali che potrebbero essere asini, muli, cavalli) potrebbero essere molto più antichi. Forse le più antiche incisioni rupestri al mondo!
Studiando il materiale litico presente sul sito, dove sono assenti tracce o vestigia più recenti, l'archeologa pensa che le sculture siano state eseguite 6500 anni prima di Cristo (quindi 6400 anni prima dei Nabatei), nel Neolitico. Anche l'analisi chimica delle incisioni e un esame dei segni degli strumenti litici trovati nel sito conferma la datazione: i dromedari non sono stati scolpiti con utensili in metallo, ma in pietra! Non sono stati rinvenuti infatti martelli, picconi o qualsiasi altra prova di insediamenti umani nella zona.
Questa roccia clastica sedimentaria (dovuta alla cementazione, in periodi e strati diversi, di sabbie silicee, caolino e minerali contenenti calcio, sodio, potassio e ossidi di ferro, da cui il colore rosa-rosso) è fragile. Infatti queste sculture oggi appaiono su uno strato di pietra della falesia profondamente eroso, e purtroppo molti pannelli di roccia sono caduti. Alcune figure sono incomplete, altre in parte distrutte. Possiamo solo immaginare come poteva essere il sito originale, che comprendeva camelidi ed equidi in grandezza naturale, spesso molto vicini, e scolpiti su due o tre strati uno sopra l'altro.
La vicinanza alle rotte carovaniere fa pensare ad un luogo di sosta nel deserto, o di culto per venerare il sacro camelide "dono del cielo". Alcuni dei dromedari raffigurati nei rilievi hanno colli particolarmente sporgenti e ventri rotondi, caratteristiche tipiche degli animali durante la stagione degli amori. Era forse un sito legato alla fertilità o a un periodo specifico dell'anno, quando la comunità araba, composta da gruppi nomadi e dispersa in vari accampamenti nel vasto deserto, si riuniva a date fisse per celebrare nozze, scambiare informazioni o merce, celebrare riti. Ma si ipotizza che possa essere anche stato, in tempi più recenti, un "segno di confine" fra proprietà.
Così i Sauditi possono essere orgogliosi di un sito millenario, più antico delle piramidi egizie, e sintesi della cultura beduina che sarà, millenni più tardi, culla dell'Islam. Il Camel Site andrà a completare l'esposizione di bellezze antiche e sviluppo tecnologico prevista dal piano di sviluppo "Vision 2030", voluto dal principe ereditario Mohammed bin Salman per affrancare il regno dal petrolio. Asia News conferma che il Fondo Saudita di Sviluppo del Turismo (Tdf) ha appena firmato un accordo con il tour operator Seera Group. Resort di lusso da 200 appartamenti, ristoranti, negozi: il regno wahhabita non sarà più soltanto meta di pellegrinaggio religioso per i fedeli islamici, ma di vacanze miliardarie con la costruzione di una città futuristica sul mar Rosso, con riserva naturale, barriere coralline e siti archeologici. Si pensa anche al turismo nelle grotte calcaree, con un solo motto "non lasciare tracce, solo fotografie"
A due mesi dal sequestro di padre Maccalli non c'è nessuna notizia certa su dove si trova, se è vivo e sui passi intrapresi per liberarlo. Un altro appello è stato lanciato dalla SMA (Società delle Missioni Africane, Genova, www.missioniafricane.it) a tutti coloro che hanno a cuore l'opera dei missionari>:
"Un nostro missionario, padre Pier Luigi Maccalli, (originario della diocesi di Crema, già missionario in Costa d'Avorio) da più di un mese è nelle mani di ignoti rapitori, i quali non si sono fatti ancora vivi. Il rapimento è avvenuto nella sua missione di Bomoanga, nel sud-ovest del Niger, a pochi chilometri dalla frontiera con il Burkina Faso. Padre Gigi, come qui tutti lo chiamano affettuosamente, in undici anni ha fatto molto per la popolazione: scavo di pozzi, costruzione di scuole e ambulatori medici, formazione per i giovani contadini, istruzione degli adulti" mettendo insieme, come riferisce l'Agenzia Fides, "evangelizzazione e promozione umana; attento all'inculturazione, ha organizzato momenti di iniziazione in relazione con la circoncisione e l'escissione femminile. Può essere uno dei moventi per il rapimento, giunto una settimana dopo il suo rientro da un tempo di riposo in Italia». Infatti, attento alle problematiche legate alle culture locali, aveva organizzato incontri per affrontare temi sociali e contrastare pratiche legate alle tradizioni, come le mutilazioni genitali.
La Missione cattolica dei Padri SMA si trova in zona Gourmancé (Sud-Ovest) alla frontiera con il Burkina Faso, nella prefettura di Makalondi, e a circa 125 chilometri dalla capitale Niamey. La Missione è presente dagli anni '90, e i villaggi visitati dai missionari sono più di venti, di cui dodici con piccole comunità cristiane, distanti dalla missione anche oltre 60 chilometri. "Da qualche mese la zona si trova in stato di urgenza - spiega padre Mauro Armanino, missionario SMA a Niamey - a causa della presenza di terroristi provenienti da Mali e Burkina Faso». Testimoni riferiscono che uomini armati in moto hanno fatto irruzione nella missione, "lo hanno preso e portato via; il confratello indiano che vive con lui è riuscito a mettersi in salvo". E' plausibile che presunti jihadisti siano attivi nella zona, dove la povertà è strutturale, i problemi di salute e igiene enormi, l’analfabetismo diffuso e la carenza di acqua e di strutture scolastiche ingenti. La mancanza di strade e di altre vie di comunicazione, anche telefoniche, rendono la zona isolata e dimenticata.
Dopo il rapimento – riferiscono dalla Curia della SMA – padre Maccalli è stato probabilmente portato al di là della frontiera. Nella confinante regione del Burkina Faso c’è, infatti, una vasta foresta in cui hanno le proprie basi i miliziani jihadisti. Attualmente la diocesi di Niamey ha inviato un gruppo di sacerdoti nel villaggio di padre Maccalli per verificare i fatti e per prendere contatti con la comunità locale. Un altro religioso italiano di una parrocchia vicina è stato fatto allontanare e ora è al sicuro a Niamey”.
Poema per p. Gigi,
di p. Paco Bautista, missionario SMA spagnolo
Algún día, en alguna parte,
todo será de otra manera.
Mientras tanto
bregamos con nuestras heridas,
convivimos los miedos,
los fracasos,
gestionamos nuestros fantasmas
en estos tiempos de crisis…
Pero también
sacamos lo mejor de nosotros
porque creemos,
contra toda evidencia,
en la bondad innata
de lo más sagrado
que cada uno lleva dentro.
Y apostamos por un mundo
sin fronteras ni exclusiones,
donde la verdad
es el punto de salida
para hacer nuevas todas las cosas.
Porque algún día,
en alguna parte,
todo será de otra manera.
Fraterno siempre
La rivista British Archaeology ha pubblicato i risultati di uno studio del ricercatore inglese Mike Pitts, secondo il quale due delle famose pietre di Stonehenge sarebbero preesistenti all'arrivo dell'uomo in Inghilterra. Questo sito, il più celebre ed imponente cromlech (circolo di pietra) della preistoria, si trova ad Amesbury nello Wiltshire, circa 13 chilometri a nord-ovest di Salisbury (sud dell'isola)
Da anni archeologi e storici si interrogano sul significato del misterioso monumento circolare di pietra. La datazione radiocarbonica indica che la costruzione fu iniziata nel 3100 a.C., e si concluse verso il 1600 a.C.. In base alla nuova ricerca invece si pensa che almeno due pietre siano del tutto naturali, sempre esistite in loco.
Infatti lo stesso Pitts, nel 1979, aveva trovato, scavando vicino al sito, resti di queste pietre, che sarebbero state trascinate a valle dall'azione di un ghiacciaio dalla vicina catena collinare (Marlborough Down) poi abitata dai pastori nomadi del paleolitico e del mesolitico.
In effetti si è sempre pensato che queste pietre di sarsens (blocchi di arenaria locale), del resto diffusissime in tutta la Gran Bretagna, provenissero dai rilievi vicini e sarebbero rimaste parzialmente interrate; altre, ma moltissimi anni dopo, sarebbero state trascinate da altri luoghi per completare il monumento.
Ma perché pietre del tallone? La tradizione racconta che il diavolo "comprò le pietre da una donna in Irlanda, le avvolse e le portò sulla piana di Salisbury. Una delle pietre cadde nel fiume Avon, le altre vennero portate sulla piana. Il diavolo allora gridò, "Nessuno scoprirà mai come queste pietre sono arrivate fin qui". Un frate rispose, "Questo è ciò che credi!", allora il diavolo lanciò una delle pietre contro il frate e lo colpì su un tallone. La pietra si incastrò nel terreno, ed è ancora lì."
Settembre 2015 - La scienza non è dogmatica, ogni ipotesi deve essere considerata “vera” fino a quando non si dimostra il contrario. Così, mentre ci si interroga ancora sul colore della pelle dei Faraoni e dei loro sudditi (erano neri?), una nuova specie del genere Homo, con caratteristiche primitive e moderne insieme, è stata scoperta in Sudafrica. Un ritrovamento che potrebbe far riscrivere la storia dell'evoluzione della nostra specie?