• Associazione A.R.G.O. - GAUDIO

    Associazione A.R.G.O. - GAUDIO

    ASSOCIAZIONE CULTURALE E DI RICERCA IN MEMORIA DI ATTILIO GAUDIO E DELL'ODISSEA COME CAMMINO DELL'UOMO - ARGO

Attilio Gaudio

Biografia

Giovedì, 02 Luglio 2015 03:40

In sintesi, la vita di Attilio Gaudio

Bibliografia

Lunedì, 29 Giugno 2015 15:16

Bibliografia di Attilio Gaudio

Gaudio e il deserto

Martedì, 30 Giugno 2015 09:01

Come spiegare il legame profondo tra Attilio Gaudio e il deserto? E come lo ha definito?

Metafora della vita, il deserto. Infinito rincorrersi di sabbia, polvere, ciottoli e pietre, oceano di barcane, arcipelago di nude colline, è il regno del vento. Sembra immobile, ma è in continua trasformazione. Metafora della morte, il deserto: il deserto è silenzio.

Manoscritti del Sahara

MALI, CHE FUTURO ?


25 Febbraio 2013- Non si sa ancora nulla di sicuro sul destino dei manoscritti di Tombouctou. Però si ha notizia di un salvataggio avventuroso organizzato al Centro Ahmed Baba dal professor Abdoulaye Cissé insieme all'addetto alla sicurezza, Abba Alhadi, a partire dal 30 dicembre 2012 (booksblog.it/post/39801). Nascosti in sacchi di iuta usati normalmente per il grano, 28.000 rotoli di pergamene sono stati trasportati in due notti, su carri trainati da asini, fino al fiume Niger, poi su imbarcazioni dirette a Mopti (la prima città ancora sotto il controllo governativo) e infine messi al sicuro a Bamako.

Tombouctou, manoscritti in cenere?

11 febbraio 2013 - Qual è la sorte dei preziosi manoscritti del deserto? Le notizie sono contrastanti. Mentre le truppe francesi e maliane sono arrivate il 28 gennaio a Tombouctou e il 30 gennaio a Kidal, 1.500 chilometri a nord-est di Bamako, sono ripresi i combattimenti nella citta' di Gao (11 febbraio 2013- notizia ASCA-AFP).

2012, Timbuctu e Manoscritti in pericolo

9 luglio 2012 La "nuova geografia" della regione. L'Azawad, nel nord del Mali, ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza il 6 aprile 2012(Fonte: www.temoust.org)

Nel 1973 Attilio Gaudio scriveva: “Tombouctou, la mystérieuse et légendaire cité du désert, retrouve son rôle historique de métropole culturelle de l’Afrique musulmane au Sud du Sahara grâce à l’impulsion donnée par l’Unesco et par l’Institut de Sciences Humaines du Mali. A cette coopération internationale on doit la toute récente inauguration du CEDRAB, le Centre de documentation et recherches historiques Ahmed Baba”. Nel 1998 la “città dei 333 santi” è stata inserita nella lista dei luoghi considerati dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Ma oggi, 2012, non si parla più di rinascita, bensì di distruzione. ... ( segue )

News

  • 2016 Nigrizia: Libia e la sfida dell' IS

    Come ogni martedì, Nigrizia organizza un incontro-dibattito-informazione su un argomento di attualità. Il 5 aprile 2016 (ore 20,30 – sala Africa dei Missionari Comboniani in Vicolo Pozzo 1, Verona) si parla di Libia, la sfida del Gruppo Stato Islamico. Sarà un dialogo tra il direttore di Nigrizia, p. Efrem Tresoldi, con il prof. Antonio M.Morone, ricercatore in Storia dell’Africa all’Università di Pavia. “La guerra non è il mezzo adeguato per sconfiggere il terrorismo del Gruppo Stato islamico (Is) né tantomeno per portare stabilità in Libia». È un passaggio del documento contro la guerra, lanciato il 9 marzo dalle riviste missionarie e dell’area nonviolenta.  

    “La Libia rappresenta il classico esempio - scrive Nigrizia- degli orrori occidentali, applicati nel sud del mondo. Con la complice collaborazione delle petromonarchie del Golfo e dell’Egitto." Orrori, quindi errori, smania di potere, di risorse, di territorio, di appalti. Si dimentica  “che la Libia, -continua Nigrizia- come l’abbiamo imparata a conoscere sugli traffici illegali di armi, persone e droga, all’accesso alle risorse minerarieatlanti, non esiste più.  Dopo 42 anni di tirannia gheddafiana, i poteri formali non contano più nulla. E quelli informali sono impegnati ad arraffare ciò che vale tra Sahara e Sahel: dai traffici illegali di armi, persone e droga, all’accesso alle risorse minerarie"..”  Tripoli, novembre 2009 (foto Mila C.G.)

    Sarà possibile una soluzione politica? L’obiettivo è la spartizione del paese tra le potenze interventiste e i loro referenti locali? E’ il momento di agire con la forza?  “Magari con l’avallo dell’Onu. - conclude Nigrizia- al di là dei vari schieramenti in campo (il governo di Tobruk e quello di Tripoli; laico il primo, islamista vicino ai Fratelli musulmani il secondo) e delle decine se non centinaia di bande armate che controllano più o meno grandi fette di territorio”.

    Per informazioni: Fondazione Nigrizia Onlus: 045.8092390 - Centro Missionario Diocesano: 045.8033519  - Missionari Comboniani -  37129 - Verona -Tel. 045.8092290 -www.fondazionenigrizia.it   www.nigrizia.it   www.museoafricano.org

     

     

     

     

  • Segreti nella Valle dell'Omo

    Valle dell’Omo N°1

       

    Giovane dell’etnia Karo davanti a un'ansa del fiume Omo; circa un migliaio di Karo vivono sulla sua sponda orientale (foto Lucio Rosa)

    Nell’estremo sud-ovest dell’Etiopia, tra i grandi laghi dell’enorme spaccatura geologica della Rift Valley sopravvive forse ancora per poco l’ultima regione “autentica” del continente: una vasta area di monti, aride savane e affluenti del fiume Omo.  Nel 1980 questa valle è stata inserita nell’elenco dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco per la sua straordinaria importanza geologica e archeologica. Qui sono stati trovati numerosi fossili di ominidi, soprattutto resti appartenenti al genere  Australopithecus e Homo, insieme ad utensili di quarzite risalenti a circa 2,4 milioni di anni fa. Un’area che si pensa abbia rappresentato una culla per il processo di ominazione negli ultimi milioni di anni. Qui abitano almeno una trentina di etnie di grande importanza antropologica ed etnografica, la preistoria ai giorni nostri. Qui opera la cooperazione italiana e lavora la società Salini-Impregilo.

    Eppure: accesso negato ai giornalisti di Nigrizia (numero di febbraio 2016). Luca Manes e Giulia Franchi erano in Etiopia ”per scrivere un reportage sul ruolo della cooperazione italiana nel secondo paese più popoloso d’Africa, con tassi di crescita fra i più alti al mondo, combinati con questioni interne che chiamare problemi è un eufemismo: fame, violenza, povertà ancora diffusa e un sistema politico basato su un monopartitismo di fatto”. Raccontano: “Avevamo scelto di visitare alcuni progetti per la riduzione del rischio nel settore acqua, localizzati nel sud, bassa valle dell’Omo. (…) Solo che nell’Omo i giornalisti non ci possono andare”. In realtà, ad Addis Abeba c’era il visto sul passaporto, l’accordo del governo federale, gli sforzi dell’ambasciata e della cooperazione italiana, anche l’intervento di un ministro. Poi è arrivato il via libera fino ad Arba Minch (nella Regione delle nazioni, nazionalità e popoli del sud – SNNPR) dove si trova il progetto Warka Water della cooperazione italiana; quindi il permesso di continuare il viaggio fino a Konso (sul fiume Sagan). Infine: impossibile proseguire per Omorate, all’ingresso della valle dell’Omo.

    Stop non solo per i giornalisti, ma anche per i cineasti. Così è stato annullato il progetto di Lucio Rosa (Studio Film TV), regista impegnato da oltre quarantacinque anni nella realizzazione di reportages, programmi televisivi e documentari. Questo “regista veneziano, bolzanino d’adozione, (scrive Graziano Tavan, giornalista de "Il Gazzettino di Venezia") aveva deciso di lasciare per un momento le “pietre” e i successi ottenuti con i suoi film di carattere archeologico e di tornare a raccontare l’Uomo, o meglio la cultura originaria di alcuni gruppi tribali in Africa, non ancora contaminati completamente dagli uomini occidentali. Il nuovo progetto prevedeva la realizzazione di cinque film in Africa, ma l’avvio non è stato bene augurante: il primo, infatti, è stato annullato. Lontano, lungo il fiume – l’anima originaria delle tribù dell’Omo, già sceneggiato e per il quale le riprese dovevano essere realizzate in Etiopia tra agosto e settembre 2015, è rimasto lettera morta”.

     

     Lucio Rosa in Etiopia durante la preparazione del film sulle tribù dell’Omo

     

    Il motivo? ” Purtroppo ho dovuto rinunciare, ha dichiarato amareggiato il regista, per i folli prezzi che le autorità chiedono per rilasciare i permessi per le riprese dei gruppi tribali, trentamila dollari. Una follia per un film maker indipendente quale io sono (…) Questo film poteva rappresentare un’ultima testimonianza della cultura originaria di questi gruppi tribali come i Karo, Mursi, Hamer, Dassenach”, e continuare il lavoro etnografico di Lucio Rosa iniziato trent’anni fa, insieme alla moglie Anna, con documentari come Babinga, piccoli uomini della foresta (pigmei del nord della Repubblica Popolare del Congo), e Pokot, un popolo della savana in Kenia.

    “In realtà, scrive Tavan, un modo come un altro per tenere occhi indiscreti lontano dai progetti perseguiti nell’area che evidentemente non hanno come obiettivo la conservazione di una delle culle dell’umanità, e il prosieguo delle ricerche antropologiche e paleontologiche nella valle dell’Omo”.     

     

    Il fiume Omo Bottego (dal nome dell’esploratore Vittorio che lo scoprì nel 1896, e vi lasciò la vita), nasce nell'altopiano etiopico e, passando, dai circa 2500 metri di altezza delle sorgenti ai 500 metri di altezza del lago, dopo 760 km di corsa impetuosa e poi di placidi meandri, sfocia con un delta nel lago Turkana (ex Rodolfo). L'Omo, serpeggiando nei vasti territori pianeggianti dell’Etiopia sud-occidentale, riceve numerosi affluenti (Gogeb, Wabi, Mago, Neri) ed attraversa i parchi nazionali di Mago e Omo, ricchi di fauna. Il territorio fa parte del Grande Rift dell’Africa orientale, un sistema di fosse tettoniche legate all’allontanamento di placche litosferiche. Un movimento divergente che, accompagnato da diffusi fenomeni vulcanici e sismici, provoca da oltre venti milioni di anni lo sprofondamento della crosta terrestre rispetto ai circostanti altipiani, e l’innalzamento delle montagne più alte dell’Africa, inclusi i monti Virunga, Mituba e Ruwenzori. 

     

     http://www.vialattea.net/spaw/image/geologia/RiftValley/01Terra_rift.jpg La Rift Valley africana ripresa dallo spazio. In tempi geologici sarà il fondo di un mare (http://www.vialattea.net)

     

    Questo fondovalle, largo tra 30 e 100 metri, anticipa la formazione di un bacino oceanico africano, allontanando in futuro il Corno d’Africa dal grande continente. La Rift Valley, lunga almeno seimila chilometri, inizia nel nord della Siria, ospita il lago di Tiberiade, la valle del Giordano, la conca del Mar Morto, il golfo di Aqaba, poi prosegue con il Mar Rosso, la depressione di Afar (la Dancalia) e attraversa l'Africa orientale fino al lago Niassa (o Malawi) e al Mozambico, nella regione dei grandi laghi africani, che includono tra i più profondi laghi del mondo come il Tanganica, profondo fino a 1.470 metri. I ritrovamenti paleo-antropologici sono appunto legati all’attività vulcanica e tettonica responsabile della formazione di queste profonde depressioni e alla contemporanea sedimentazione legata all’intensa erosione dei rilievi, ma anche ai clasti e alle ceneri vulcaniche che hanno coperto rapidamente i resti animali e vegetali, permettendo così la fossilizzazione.

     

     La realtà nella bassa valle dell’Omo sta cambiando velo­cemente a scapito dei deboli della Terra, come sono i popoli che qui vivono, scrive Lucio Rosa su Archeologia viva. Un villaggio dei Karo che ho visitato recentemente, e che otto mesi prima era un villaggio vivo, posto al di sopra di un’ansa dell’Omo, praticamente non esiste quasi più, a parte qualche persona che si “imbelletta il volto” per accontentare qualche turista. È dal 2011 che il governo etiope dà in concessio­ne a imprenditori stranieri enormi appezzamenti di terra fertile sottraendoli ai gruppi tri­bali e distruggendo i loro pasco­li. Chi si oppone e fa resistenza subisce pestaggi e anche il carce­re. Per l’Africa è una storia vec­chia che si ripete. Sono aziende turche, malesi, finlandesi, olan­desi, italiane, coreane, di mezzo mondo, specializzate nella col­tivazione della canna da zuc­chero, cotone, palma da olio, mais per biocarburanti, che si sono accaparrate questi vasti territori. Si deforesta per fare spazio al grande progetto statale “Kuraz Sugar Project”, che sot­trarrà un’area di 245.000 ettari ai territori dove vivono i gruppi tribali. Lungo le sponde del mi­tico Omo i bulldozer continua­no a spianare terreni sterminati per le piantagioni che saranno irrigate con l’acqua del fiume. E conclude: E con l’estinzione dei gruppi tribali finirà anche il turismo culturale. Sono circa duecentomila gli indigeni che vivono qui. La loro esistenza è gravemente minacciata. La loro fine sarà un po’ anche la nostra”.

     

     Foto Lucio Rosa 

     

    In effetti, negli ultimi decenni il fiume Omo ha cominciato a divenire oggetto di uno sfruttamento idroelettrico: sono state costruite le tre dighe Gilgel Gibe I, II e III e sono in via di pianificazione le due Gilgel Gibe IV e V. Il presidente Matteo Renzi è stato persino fotografato in visita all’enorme diga Gilgel III (ormai quasi completa: alta 240 metri, lunga 610) con i dipendenti della Salini, impresa che ha iniziato a costruire l’opera nel 2006.  Le immagini satellitari mostrano che il governo ha iniziato a riempire il bacino della diga; fornirà l’acqua a vaste piantagioni commerciali che si trovano nelle terre ancestrali delle tribù, e la produzione di energia elettrica aumenterà notevolmente. Ma l’impatto ambientale e umano sarà catastrofico. Il fragile ecosistema e i mezzi di sussistenza degli autoctoni, strettamente legati al fiume e alle sue esondazioni annuali, verranno distrutti. Clima e vegetazione cambieranno con l’intero bacino idrografico. I piccoli coltivatori, apicoltori, raccoglitori, cacciatori perderanno, oltre ad uno stile di vita millenario, l’autosufficienza alimentare. I pastori, privati di pascoli e foreste, dovranno abbandonare mandrie e greggi, e i nomadi saranno costretti a sedentarizzarsi.

    I fieri abitanti dell’Omo diventeranno i salariati delle grandi multinazionali per coltivare canna da zucchero, olio di palma e cotone per l’esportazione?

     Mila C.G.  (le foto di Lucio Rosa sono state gentilmente concesse dall’Autore) 

     Omo Basin Area map.jpg

     Area del fiume Omo con evidenziate le tre dighe Gilgel I, II, III e la IV in programma. In piccolo, l’intera area dall’Eritrea al Kenya (rappresentazione non in scala)  voices.nationalgeographic.com

     

     

     

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  • Ricordando Lidia Cicerale

    Lidia Cicerale (prima a sinistra, insieme ad Attilio Gaudio) nel 2000, in una delle biblioteche del deserto della Mauritania (foto Sam Selmou)

    Il Centro Studi Archeologia African (CSAA - www.csaamilano.it ) ha ricordato con una giornata speciale "l'avventura umana e scientifica" di una persona che per trent'anni è stata l'anima e la mecenate di questo centro milanese, sito presso il Museo civico di Storia Naturale di Milano. Erano presenti in molti: gli innamorati dell'Africa e dell'archeologia, la famiglia commossa, e soprattutto i collaboratori, i co-fondatori del Centro, e gli studiosi che via via si sono inseriti ed hanno partecipato alle numerose missioni sul terreno, ricerche, congressi, seminari. "Sarà il nostro modo, hanno scritto gli organizzatori,  per ricordare Lidia Cicerale e per presentare una serie di nuovi contributi alla storia dell’Africa e, più in generale, alla conoscenza della vicenda umana."

    Hanno preso la parola Giulio Calegari e Giorgio Terruzzi, rievocando gli inizi e l'entusiasmo e la disponibilità di Lidia, e insieme a lei gli oltre 30 anni di vita del Centro Studi Archeologia Africana. Poi Gigi Pezzoli, attuale presidente del CSAA, ha presentato "Pierre Reinhard: un ricercatore francescano nel Nord Togo". Altri interventi hanno illustrato esplorazioni e ritrovamenti recenti nel Deserto Libico (Maria Emilia Peroschi e Flavio Cambieri) - il Gran Mare di Sabbia, GSS, e l'origine delle società moderne (Lorenzo De Cola) - il poggiatesta, confronto tra l'etnografia africana e l'antico Egitto (Franco Di Donato) - vita con una famiglia tuareg nell'oasi di Djanet, Algeria (Giovanna Soldini). E poi: Gilberto Modonesi: percezione del mondo nilotico da parte dei Romani - Itala Vivan: musei delle migrazioni, alle porte d'Europa (partendo dalla Porta d'Europa di Mimmo Paladino a Lampedusa) - Barbara Barich: il potere dell'immagine nella preistoria del Sahara. Infine Christian Dupuy (dell'Institut des Mondes africains) ha interpretato arti e società dell'Africa settentrionale in maniera molto interessante , parlando di una "médiation horizontale" (con la vita quotidiana, la sopravvivenza, tutto ciò che circonda l'uomo al suo livello) e la "médiation verticale", lo spazio virtuale del soprannaturale, del magico, del mistero.

    E per concludere, Giulio Calegari, "armato" di uno strumento musicale (comprato da Lidia) che non ha potuto suonare per mancanza di corde, ha lanciato "sguardi spontanei e voli pindarici sull'arte rupestre", e proiettato immagini di graffiti rupestri eritrei, in cui compare lo stesso strumento.

     

     

     

     

  • Persia: graffiti di cinquemila anni

    Un'équipe di archeologi ha scoperto nella regione di Isfahan, lungo il percorso di antiche vie di comunicazione commerciali, economiche e culturali, antiche rocce incise con vari segni e simboli, risalenti al terzo millennio a.C. (età del Bronzo) fino al periodo preislamico.

      incisioni a Meymeh

    Lo ha annunciato il capo della Isfahan's Cultural Heritage Organisation, Fereydoun Alahyari, sottilineando che si tratta delle prime manifestazioni, nella regione, di una forma di comunicazione non verbale e intuitiva tra popolazioni vicine preistoriche.

    E' durante le ricerche nelle città di Shahin Shahr e Meymeh, poi estese a Kashan, Ghamsar,  e Golpayegan verso nordest, che sono state fatte varie scoperte: un'antica collina del periodo sasanide (224-651 d.C., secondo impero persiano), una zona mineraria del periodo samanide (819-1005 d.C.), varie tombe  anch'esse preislamiche.

    Così, cinquemila anni fa, antiche strade collegavano -grazie alle indicazioni di queste pietre, conosciute come Negarkand- le economie e le civiltà degli abitanti dell'altipiano iraniano, ben prima dell'arrivo di altre popolazioni scese da nord.

  • Etiopia 2020: acqua e fuoco ( 1 )

    ETIOPIA (ed ASMARA) - Guerra contro il Tigray

    In questo anno 2020, segnato dalla pandemia per il Covid-19, si parla poco dell’ Etiopia. Eppure sono due i grandi fatti di attualità: la grande diga sul Nilo Azzurro e il conflitto nel nord del paese. Poi un più recente triste fatto di cronaca: il 12 gennaio 2021 il feretro di Agitu Gudeta è arrivato ad Addis Abeba, dove sarà sepolto per volere della famiglia, e riceverà i funerali di Stato. Una scritta accompagna l'immagine dell'imprenditrice massacrata in Trentino: "La tenacia instancabile". La donna, che aveva fondato l'azienda biologica "La capra felice", è stata uccisa da un suo collaboratore ghanese, sembra per uno stipendio non corrisposto.

      LaregionedelTigray  (fotoMGC§ )               

    Agidu aveva lasciato l'Etiopia dopo aver ricevuto minacce da parte del governo per la sua attività di contrasto al land grabbing, l’accaparramento dei terreni a favore delle multinazionali, un problema che affligge molti Paesi africani. Dopo gli studi all'università di Trento si era stabilita a Frassilongo nel 2010 e aveva fondato il suo allevamento di capre autoctone con produzione di formaggi nei terreni recuperati dall’abbandono nelle montagne trentine.      

    L'Etiopia - Circondata da: Sud Sudan a ovest, Eritrea a nord, Corno d’Africa con Somalia e Gibuti a est, Kenya a sud, L’Etiopia non ha sbocchi sul mare e si può grossolanamente dividere in tre grandi tre grandi regioni morfologiche: l’Acrocoro Etiopico propriamente detto, la Dancalia e l’Altopiano Galla-Somalo. Secondo paese africano per popolazione, i circa 103 milioni di abitanti sono divisi in  oltre ottanta etnie, diverse per lingua, storia, habitat e cultura. I gruppi etnici maggioritari sono Oromo, Afar, Galla, Amhara, Somali, Sidamo, Gurage, Weilata, Tigrini *(6% della popolazione etiopica). E’ la regione di questi ultimi,  il Tigray (nel nord, al confine con Eritrea e Sudan) ad essere teatro di un micidiale conflitto dal 4 novembre 2020. Amministrativamente l’Etiopia è uno stato federale suddiviso in dieci stati regionali semi-autonomi e due città autonome, Addis Abeba e Dire Daua.

                                                                               La regione del Tigray (Foto MCG §)

    Per capire bisogna ora fare un passo indietro. ll Tigray è una regione montagnosa con circa cinque milioni di abitanti (in prevalenza agricoltori e allevatori) di cui circa 500.000 popolano la capitale Makallé. Tigrino è Meles Zenawi, che è stato presidente di transizione dal 1991 al 1995 dell’Etiopia alla caduta del governo del Derg,** per poi diventare primo ministro. Sotto la sua presidenza venne istituito nel Paese, con la Costituzione del 1994, un federalismo su base etnica. Il progetto della grande diga sul Nilo Azzurro (auspicato da Hailé Selassié) era già stato approvato una decina di anni fa appunto con Meles Zenawi, leader del Fronte di Liberazione del Popolo del Tigré (TPLF) e poi del Fronte Ethiopian People’s Revolutionary Democratic (EPRDF). Il partito di Zenawi (che morì a Bruxelles nel 2012 a soli 57 anni) dirige tuttora la regione del Tigray, ma è importante notare che ha controllato per circa trent’anni l’apparato politico e di sicurezza in Etiopia (rimanendo acerrimo nemico dell’Eritrea, con cui invece il governo attuale di Addis Abeba ha fatto recentemente pace). Invece il giovane primo ministro attuale Abiy Ahmed Alì (42 anni, di etnia Oromo) eletto nel 2018, ha messo fine a due decenni di guerra con Asmara, ed è stato capace di far coalizzare le componenti politiche dei due gruppi etnici più numerosi (Oromo e Amhara) in Etiopia, forse isolando i Tigrini.  

      

    In giugno 2020 erano già iniziati apertamente gli attriti con il governo centrale, quando il Parlamento  federale aveva rinviato le elezioni causa Coronavirus, estendendo di un altro anno il mandato al primo ministro. Così il governo del Tigray aveva indetto le sue elezioni parlamentari, vinte ovviamente dal TPLF.

    In risposta Abiy Ahmed (premio Nobel per la Pace 2019***)  accusa il TPLF di aver attaccato le truppe federali in una base settentrionale, e minaccia un’operazione militare contro la regione dissidente per sostituire le autorità tigrine con “istituzioni legittime". Alle parole: "siete sul punto di non ritorno, arrendetevi pacificamente: il vostro viaggio di distruzione è arrivato alla fine", il leader tigrino Debretsion Gebremichael risponde "siamo persone di principio, non arretreremo di un millimetro". Di qui il taglio dei collegamenti con il Tigray, che respinge l'ultimatum del premier (tempo 72 ore per arrendersi) e l'inizio delle ostilità. L'esercito federale quindi invade il Tigray accerchiandone la capitale. In risposta i Tigrini attaccano con missili e artiglieria obiettivi dell'esercito regolare, distruggono gli aeroporti nelle vicinanze, facendo arrivare missili persino sulla capitale eritrea, Asmara, da dove partivano i raid aerei etiopi. Doveva essere un'operazione lampo, ma il conflitto ha ormai provocato centinaia di morti e numerose migliaia di rifugiati nel vicino Sudan, allontanando la "fase finale" auspicata dal primo ministro.  Il numero dei profughi è andato diminuendo con il passare dei mesi (da 7.000 a meno di 500 al giorno), anche per un incremento della sorveglianza sulla linea di frontiera sudanese, ma un terzo è costituito da bambini e minori di 17 anni. A fine novembre il primo ministro avrebbe dichiarato la vittoria del governo, ma 6 milioni di persone sarebbero ancora bloccate nel Tigray. Nell'est del Sudan nell'ultimo mese sono stati trasferiti più di 20.000 Tigrini, dalle zone frontaliere, verso il campo di Um Rakuba, a circa 75 km dalla città di Gedaref, e si parla di costruire un nuovo campo per i rifugiati verso l'interno. Misteri e silenzi: è certo il pericolo di tumulti violenti e incertezze, rivalità etniche, genocidio.

       Tigrini (Foto MCG§)

    La Commissione Etiope per i Diritti Umani ha comunicato che questo 12 gennaio sono stati uccisi oltre 80 civili, bambini compresi, in un attacco nella regione di Benishangul-Gumuz, al confine con il Sudan. L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (HCDH) ha chiesto ad AddisAbeba di poter accedere all'intera regione del Tigray e di proteggere i civili. Intanto è stato chiuso lo spazio aereo sudanese ai confini l'Etiopia per i voli civili. Un convoglio di aiuti internazionali e sette camion della Croce Rossa sono recentemente arrivati a Makallé con medicinali e materiale medico... le notizie, come gli aiuti, sono insufficienti. Lo riporta Esat Tv, canale satellitare dell'opposizione citato dalla Bbc, specificando che numerosi attacchi sono stati lanciati nelle giornate di lunedì e martedì (12 e 13 gennaio). Il rapporto cita ancora "fonti attendibili" che confermano l'uccisione di 130 civili da parte di uomini armati in vari distretti nella zona di Metekel lunedì. "I banditi armati prendevano di mira solo le case dei cittadini di etnia Amhara e Agew, e ne hanno uccisi molti, comprese donne e bambini; gli abitanti dell'area raccoglievano i corpi", hanno detto all'Esat Tv. Durante l'attacco al distretto di Dibate, afferma la stessa fonte locale , "il numero dei morti potrebbe ancora aumentare".

      Nel Cimitero Italiano di Adigrat sono sepolti circa 765 italiani, soldati e civili. (Foto MCG§).  Sono qui riuniti i caduti provenienti dai cimiteri di Adigrat - Acab Saat - Dembenguirà - Abi Abuna - Amba Alagi - Axum - Ugurò - Selaclalà - Enticciò - Biet Mora.

    A  circa 1.000 km a nord di Addis Abeba, nella Regione del Tigray, si trova Adigrat, ultima importante città prima del confine con l’Eritrea. Circondata dalle alte Ambe, Adigrat si trova in una fertile conca, sulla principale rotta commerciale e strategica verso il Mar Rosso. Punto strategico di base e di rifornimenti nella campagna italo-etiopica del 1895-96 (con la conquista dell'Eritrea), e successivamente nella guerra per iniziare conquista dell'Etiopia (1935-36), sulla linea Adua-Adigrat verso sud.

    *I Tigrini , come gli altri popoli degli altipiani, sono un popolo forte. Questo gruppo etnolinguistico vive in gran parte negli altopiani eritrei e nella regione settenrionale del Tigray in Etiopia. Parlano la lingua Tigrinya, che appartiene alla famiglia afroasiatica. La loro religione è il cristianesimo ortodosso, in particolare sono seguaci della chiesa ortodossa etiopica di Tewahedo. Le loro coltivazioni sono in prevalenza il  cereale teff, granoturco, orzo, piselli, lenticchie, cipolle e patate. Come pastori prediligono pecore e capre da cui ricavano pelli e lane per oggetti, coperte e indumenti. Le tipiche case tigrine sono di pietra a pianta quadrata, altre sono tonde col tetto piatto fatto di terra; il focolare è ricavato da una buca nel pavimento, mentre il fumo infilandosi in una brocca rotta come comignolo esce dal tetto. Ma, dato che la legna da ardere è scarsa, i contadini, invece di concimare il terreno, utilizzano il letame per fare il fuoco in cucina. Sui ripidi pendii utilizzano un sistema di irrigazione a terrazzamento. Anticamente c'erano numerose grandi comunità urbane nella regione del Tigray, che fiorirono e crearono molta arte cristiana durante il Medioevo.

    ** Il Derg ("comitato" in lingua amharica) o Governo Militare provvisorio dell'Etiopia Socialista, governò con una feroce dittatura l'Etiopia e l'attuale Eritrea dal 1974 al 1987, ma ne mantenne il controllo fino al 1991. Il suo presidente dal 1977 era Menghistu Hailé Mariam, detto il Negus rosso. Questo Comitato di coordinamento di forze armate, polizia e forze territoriali, aveva detronizzato Selassié nel 1977 e avviato una rivoluzione progressivamente marxista (dopo una lotta tra moderati e radicali) con Menghistu. Hailé Selassié è stato dunque l'ultimo imperatore d' Etiopia dal 1930 al 1974 (a parte l'esilio in Inghilterra durante l'occupazione italiana); imprigionato nel palazzo imperiale, venne assassinato per ordine dello stesso Menghistu. Dopo la guerra, l'Eritrea era stata federata inizialmente all'Impero d'Etiopia dalle Nazioni Unite, mantenendo la propria autonomia. Ma il governo di Addid Abeba smantellò lo stato federale nel 1960, per annettere semplicemente l'Eritrea nel 1962. Soltanto nel 1991 il Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo scacciò l'esercito etiope fuori dei confini eritrei, e supportò il TPLF (Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè), movimento etiope di resistenza, per rovesciare la dittatura di Menghistu, che cadde nello stesso anno. Ma nel 1998 l'Etiopia, per un problema di confini, aveva iniziato una guerra con l'Eritrea (da cui si era separata consensualmente nel 1993, con l'indipendenza dell'Eritrea dopo una guerra durata trent'anni). Sia dopo il Negus Rosso che dopo la morte di Zenawi il paese si trovò in condizioni durissime anche per siccità, povertà, tumulti, proteste, repressioni, brogli elettorali, la guerra con l'Eritrea ... Il suo vice Haile Mariam Desalegn si dimette inizio 2018, lasciando il paese vicino ad una guerra civile. Le elezioni portano al governo Abiy Ahmed Alì di etnia Oromo, che fa pace con l'Eritrea chiamandola "amica".

     *** "La guerre est l’incarnation de l’enfer pour tous ceux qui y participent. Je suis passé par là et j’en suis revenu." Le 10 décembre 2019, à Oslo, Abiy Ahmed entame son discours de lauréat du prix Nobel de la Paix par le récit – poignant – de son expérience d’opérateur radio sur le front de Badme, pendant la guerre entre l’Éthiopie et l’Érythrée, en 1998. « Il y a ceux qui n’ont jamais vu la guerre, mais qui la glorifient. Ils n’ont pas vu la peur, la fatigue et la destruction, poursuit-il devant l’auditoire. Ils n’ont pas non plus ressenti le triste vide de la guerre après le carnage".

     § Mila Crespi Gaudio

     

  • Stop allo sviluppo ecocida?

    Se tutti conoscono il significato della parola ecologia (dal greco casa, ambiente e discorso, studio), delle sue branche scientifiche e dei vari termini derivati, l’ecocidio può apparire misterioso. Anche perché tra i primi significati su internet si trova un concetto minaccioso (espresso da Jeremy Rifkin nel suo saggio omonimo): “ascesa e caduta della cultura della carne”. In realtà ecocidio significa distruzione dell’ambiente naturale, danno ambientale esteso. E Rifkin, partendo dalla sacralizzazione dei sacrifici umani e animali, basandosi su dati antropologici, ecologici, economici, afferma che l’evoluzione del consumo della carne nei paesi occidentali industrializzati porta malattie, enormi squilibri ambientali, spreco di grandi quantità di cereali, aumento di povertà e fame nei paesi del terzo mondo. Anzi, studiando in particolare l’evoluzione della geografia agricola della Francia, ritiene che la propensione ecocida della popolazioni rurali prima della Rivoluzione Francese abbia coinciso che la prima ondata sconsiderata dell’industrializzazione moderna

    . Siccità in Somalia (foto Attilio Gaudio, circa 1960)

    Di modello di sviluppo ecocida si parlerà martedì 07 febbraio 2017 a Verona (Nigrizia, Sala Africa dei Missionari Comboniani, Vicolo Pozzo 1 – ore 20,30). Ad affrontare il tema sarà Stefano Squarcina, esperto di politiche ambientali e di cooperazione allo sviluppo, in particolare con l’Africa. Le attività economiche umane rappresentano sempre più un pericolo per la sopravvivenza dei viventi e del pianeta stesso. E’ urgente mettere in pratica le misure sottoscritte da oltre 190 paesi dell’ONU negli accordi di Parigi nel 2015. In precedenza, infatti, lo Statuto di Roma (Art.8, 2b, iv) della Corte penale internazionale (firmato nel 1998, entrato in vigore nel 2002 e modificato nel 2010) non aveva incluso l’ecocidio tra i “crimini internazionali contro la pace” insieme al genocidio; si erano opposti Regno Unito, Usa e Paesi Bassi. I danni “diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale” erano stati inseriti tra i crimini di guerra. Quindi l’ecocidio sarebbe un crimine in tempo di guerra ma non in tempi di pace.

    Ma i rifugiati climatici nel mondo sono ormai più di 180 milioni. Deforestazione, siccità, distruzione delle zone umide, erosione dei suoli e conseguente ulteriore impoverimento delle popolazioni hanno raggiunto in Africa dei livelli di criticità mai conosciuti nella storia dell’umanità. Durante l’incontro di Nigrizia verranno discusse misure per combattere il “debito climatico”, azioni a favore della “giustizia climatica” (ad esempio riorientamento della fiscalità a fini climatici o transizione energetica), nuove forme e meccanismi di finanziamento della politica di cooperazione internazionale, soprattutto europea, verso l’Africa e altre aree del pianeta. Occorre ripensare le politiche di intervento nei paesi impoveriti, favorire un’agricoltura sostenibile, la decarbonizzazione dell’economia, la protezione e democratizzazione dell’uso delle risorse idriche potabili e non, la lotta alle emissioni di gas ad effetto-serra, alla deforestazione, ecc... Il problema non presenta solo aspetti climatici, politici e macroeconomici, ma anche etici e sociali a tutti i livelli, come il land grabbing (acquisizione su larga scala di terreni agricoli soprattutto in paesi in via di sviluppo) la costruzione di grandi dighe, lo spostamento di grandi masse di popolazione, l’esproprio di aree tribali o di piccoli appezzamenti preziosi l’autosufficienza alimentare, la dipendenza dalle sementi ogm, le estese monoculture per la produzione di materie prime o biocarburante per i paesi ricchi, la delocalizzazione delle grandi industrie, persino i parchi nazionali con ambigua protezione di flora e faura ma con bracconaggio commerciale e privazione dei diritti di caccia tradizionali dei nativi … infine la globalizzazione.

  • UN MISURATORE SOLARE PREISTORICO

    L’archeologa  Mercedes Versaci (Gruppo PAID HUM-812 del dipartimento di Preistoria dell’ Università di Cadice) ha scoperto – in  una grotta della Sierra della Plata, punta meridionale della penisola iberica vicino a Gibilterra - una pittura rupestre che funge da indicatore solare. Una scoperta finora unica in Spagna. Stava preparando una tesi (dal titolo “El sol, símbolo de continuidad y permanencia: un estudio multidiscilpinar sobre la figura soliforme en el arte esquemático de la provincia de Cádiz”) nella zona intorno alla laguna de La Janda, (oggi a secco) nel comune di Tarifa, dove sono stati registrati circa trecento rifugi preistorici con pitture rupestri. In ventidue di essi  appare una figura a forma di sole.

    Ma nella Cueva del Sol (una piccolissima grotta di difficile accesso ma molto visibile) la studiosa ha scoperto un disco di 24 centimetri, geometricamente perfetto, con dodici raggi orientati verso il calar del sole. E l’unico raggio  dipinto coincide con  l’ultimo filo di luce del crepuscolo del solstizio d’ inverno. Quindi una specie di calendario agricolo per sapere quando le giornate avrebbero iniziato ad allungarsi e seminare, quando le piante sarebbero cresciute insieme al sorgere del sole più presto ogni giorno, quando ci sarebbe stato il raccolto, quando la terra avrebbe avuto un periodo di riposo. E questo ciclo si sarebbe compiuto al successivo solstizio d’inverno per ricominciare. Quindi una concezione del tempo circolare e una pittura rupestre risalente molto probabilmente alla preistoria recente, quando l’uomo già praticava l’agricoltura. Infatti le piante sono rappresentate in altre grotte con figure ramiformi e associate a idoli per rituali magici.

                               

    Fonte: europasur.es | 22.01.2017 - Red Española de Historia y Arqueologia

     

     

     

  • L'Africa che scompare: i Pigmei Babinga

       (foto L.Rosa) 

    "Addio BaBinga, piccoli uomini della foresta": così s'intitola il nuovo lavoro di Lucio Rosa con la moglie Anna.

    Regista, documentarista, giornalista, fotografo, Rosa ha raccolto e commentato le sue storiche foto-documento in bianco e nero scattate trent'anni fa nella Repubblica Popolare del Congo, Africa Equatoriale.  Foto che saranno oggetto di una mostra  programmata per fine estate a Bolzano. Inaugurazione il 9 o 10 settembre 2019 in via Orazio, Espace La Stanza, dove l'anno scorso (febbraio 2018) si era tenuta un' altra mostra fotografica dal titolo "Antiche architetture berbere. Lybia by Lucio Rosa".  Anche qui foto sempre (o quasi) in bianco e nero, che per Lucio "è il colore base della fotografia. Soprattutto certe foto, devono essere fatte di luci e ombre, più che di colori".

    In Libia questo artista della luce ha "catturato architetture incredibili, soprattutto a Ghadames", dove ha girato anche un film dal titolo "Con il fango e con la luce". In Congo invece è l'elemento umano che fa da protagonista, anche perché queste foto sono un addio: "addio in un quanto, pur esistendo ancora i BaBinga, ed essere ancora "piccoletti", dice il regista, la loro cultura, le loro tradizioni, sono ormai "perdute" per sempre. I BaBinga, come anche altri Pigmei, sono usciti dalla foresta per vivere accanto e con i Bantu, in un rapporto che li vede sicuramente perdenti. Con le fotografie ho documentato le ultime testimonianze di questo fragile microcosmo, di cui ho voluto cogliere la sua anima originaria."

    Nella foto in alto (gentilmente concessa dall'Autore come quella in basso), vediamo tre generazioni: il bambino, l'adolescente e l'adulto nel loro habitat tradizionale. Ma per quanto tempo? Superstiti testimoni di epoche antichissime, i pigmei Babinga continuano ad essere studiati soprattutto per definire gli elementi originari e genetici della loro civiltà, che probabilmente ha costituito il substrato africano preistorico nella vasta area del Sahara centrale, dagli altopiani orientali all'Atlantico. Furono poi respinti nelle aree forestali più impervie dall'espansione del gruppo negroide, parzialmente fondendosi con questo nelle aree marginali.

    Questi piccoli uomini sono dunque la testimonianza di quella che fu probabilmente la vita dei cacciatori-raccoglitori della preistoria. La buia e impraticabile foresta equatoriale ha contribuito a proteggere le loro caratteristiche. Oltre ai TYwa e Tswa, sostanzialmente pigmoidi anche se meticciati con elementi negroidi, si distinguono due raggruppamenti, considerati i più "puri": i Mbuti o Bambuti, suddivisi in alcune famiglie che nomadizzano nel bacino dell'Ituri, e i BaBinga o Binga, con  numerose tribù, praticamente sedentari nel bacino del basso Oubangui fino alla sua confluenza con il Congo.

    I Pigmei non vanno considerati semplicemente dei Neri in miniatura. Le loro caratteristiche somatiche e genetiche li collocano in un gruppo peculiare, con una propria differenziazione e una conformazione che per le proporzioni ricorda abbastanza da vicino quella di un bambino nella prima infanzia (fenomeno di isolamento o neotenia?): statura molto piccola (media oscillante da 1,37 m a 1,45 m); cranio tendenzialmente brachimorfo; pelle di colore giallo-rossiccio più o meno scuro, ma non nero; occhi castani; capelli corti e crespi; barba ben sviluppata; labbra pronunciate; naso decisamente platirrino; tronco relativamente lungo rispetto agli arti inferiori che appaiono brevi; arti superiori piuttosto lunghi, frequenza di un fattore glubulinico specifico e di gruppi sanguigni A e B più alta rispetto a quella del gruppo negroide, minore pelosità, presenza di un fattore glubulinico specifico, infine bassa incidenza di anemia falciforme.

    (foto Lucio Rosa)

    Ma le cose stanno cambiando repentinamente: l'impatto con altre civiltà sta fatalmente inquinando, come in altre parti del mondo, cultura e tradizioni. Eppure il cuore di Lucio Rosa è sempre là: "Io l’Africa la conosco dal di dentro, nel male e nel bene.** Ho evitato le bombe, sono stato boicottato, tanti miei progetti sono svaniti nel nulla... La prima volta che sono andato in Africa mi ha lasciato stordito. Amo i profumi, i colori, la gente dell’Africa. Erano sempre disposti ad aiutarci quando dovevamo girare. A cominciare dai Pigmei. Ma sta tutto cambiando purtroppo. Nella prima scena di un mio film, che mi ha chiesto Piero Angela, c’è un Pigmeo con l’arco e le frecce, nell’ultima c’è un Pigmeo con un fucile. Ho detto tutto".

    *Babinga, piccoli uomini della foresta - Italia - Regia: Lucio Rosa - Durata: 27’
    Anno di produzione: 1987 - Produzione: Studio Film Tv
    Consulenza scientifica: Lucio Rosa

    **Altri lavori di Lucio Rosa, gentilmente concessi per la mostra di Attilio Gaudio, sulle biblioteche del deserto, a Milano, nel 2008: Scrivere sulla sabbia
    Il Segno sulla Pietra (58') (2006)   -      Bilâd Chinqît - Il Paese di Chinguetti (59') (2004)


  • Libia 1: Il "ragazzo" con la Nikon

      E' il titolo del nuovo film di Lucio Rosa (Studio Film TV, Bolzano)*, ovvero Libia, antiche architetture berbere, che il regista definisce "fatto con la testa e con il cuore e presenta con queste parole: "Le antiche oasi che gli Imazighen "uomini liberi", i Berberi di Libia, "vestirono" di una splendida architettura, oggi sono quasi tutte abbandonate e cadute nel degrado. È un mondo che sta scomparendo, non essendoci più grande interesse per il recupero e la conservazione della memoria e della storia. Inoltriamoci in questi luoghi, percorriamo queste strade, visitiamo quanto di prezioso rimane di un tempo antico: le architetture sublimi di antiche sontuose dimore, le elaborate architetture con cui si innalzavano magazzini fortificati, i villaggi che accoglievano i mercanti che, con le loro carovane, portavano i prodotti dell'Africa Nera verso i porti del Mediterraneo."

    Questo film ci offre una visita speciale, accompagnati da un fotografo speciale,, con una serie di scatti che, meglio che in un film, fluiscono, a volte con progressivi ingrandimenti, consentendo di osservare i dettagli, accompagnati da preziose informazioni e una musica discreta e solenne. E' quasi un pellegrinaggio, in una regione speciale dal clima estremo in estate e in inverno: l'estremo nord-ovest della Libia, dove il Jebel Nafusha, alto 968 metri, (o Djebel Nefoussa - in arabo : ,الجبل نفوسة o al-Jabal Nefusa, in berbero nafusi: Adrar n Infusen) separa la pianura della Tripolitania dall'ardente Sahara. Qui abitano i Berberi Imdyazen, musulmani ibaditi generalmente considerati gli ultimi discendenti della terza branca dell'Islam, il Khârijismo.

    «Durante le varie missioni svolte in Libia - spiega Lucio Rosa - per realizzare film e ricerche varie (e purtroppo solo fino al 2014 perché poi la Libia è diventata impraticabile) mi sono interessato all’ architettura berbera di diverse oasi, abitate e vissute dai berberi Imazighen fino ai primi anni ’80. Poi Gheddafi, volendo che la sua gente vivesse con i confort occidentali, ha costruito le nuove città in prossimità dei vecchi villaggi, e le vecchie oasi sono state quasi tutte abbandonate e sono cadute nel degrado. È un mondo che sta lentamente scomparendo non essendoci più grande interesse per il recupero e per la conservazione della memoria e della storia»

    Ma chi è Il ragazzo con la Nikon?

    Il regista stesso, che ha scattato migliaia di fotografie, appunto con la Nikon, nel corso degli anni, fino all' “Ultima, nell’aprile 2013… poi il buio per questo splendido Paese”, ricorda con amarezza. Il 23 aprile 2013 il regista era appunto a Tripoli al ministero del Turismo e Cultura per firmare il contratto di un film su Ghadames, la grande oasi ai margini occidentali del Sahara libico nel punto d'incontro di Libia, Algeria e Tunisia. “Ma un attentato all’ambasciata francese ha bloccato Tripoli… fuggi fuggi… imbarco sul primo aereo per riornare in Patria, e il film, con la sceneggiatura e storyboard approvati, è finito nel cassetto. In attesa… Ad oggi è ancora lì, ricoperto dalla polvere del tempo… ma ancora vivo nelle mie intenzioni e speranza… ma verrà il giorno…”

    *Regia, fotografia, montaggio, testi: Lucio e Anna Rosa- Durata: 30'  - Formato: Full HD 16:9

    © Studio Film Tv

  • Tracce di un DNA sconosciuto in Africa?

    Alcuni uomini dell'Africa Occidentale possiedono un DNA ibridato con un misterioso ominide sconosciuto, risultato da incroci di Homo sapiens con altre specie arcaiche esistenti migliaia di anni fa. Questo DNA è stato in parte trasmesso all'uomo moderno, unica specie sapiens attualmente vivente sulla Terra. Ora due scienziati dell'Università di California (Los Angeles) hanno trovato un altro DNA sconosciuto presso il popolo Yoruba, in Africa occidentale. Ricerca complicata dal clima caldo umido che altera lo studio di codici genetici.

    Però, applicando il metodo statistico (secondo il Progetto 1000 genomi), Durvasula e Sankararaman hanno determinato che circa l'8% del genoma yoruba è riconducibile ad una specie arcaica "fantasma", percentuale variabile a seconda delle regioni (e quindi riconducibile a incroci con popolazioni diverse, fenomeni di deriva genetica, selezione di geni sfavorevoli, isolamento, migrazioni).

    Chi può essere il fantasma? I ricercatori scartano i Pigmei (il cui codice, sequenziato, non coincide con quello degli Yoruba), i neandertaliani e i denisoviani (poco possibili geograficamente), e anche Homo naledi dal piccolo cervello (250.000 anni fa, nelle pianure sudafricane). Homo heidelbergensis (200.000 anni fa) rimane il candidato più probabile: probabilmente nato in Africa si ipotizza che si sia diffuso ed evoluto in quattro sottospecie. Homo heidelbergensis "heidelbergensis " includerebbe fossili africani ed europei, crani con architettura arcaica e caratteri derivati; H.heidelbergensis "rhodesiensis" sarebbe la varietà africana da cui sarebbe nato Homo sapiens; H. "daliensis" sarebbe la sottospecie asiatica non-herectus, comprendente l'Homo di Denisova; H.heidelbergensis "steinhemensis" che sarebbe la varietà europea pre-neanderthaliana, comprendente gli individui spagnoli della Sierra de los Huesos di Atapuerca. Questi resti spagnoli fanno ritenere che la separazione delle linee evolutive di H.sapiens sapiens, H.di Denisova e H.neanderthalensis risalga a quasi 1 milione di anni fa, mentre secondo la genetica la divergenza tra le tre tipologie sarebbe avvenuta circa 500.000 anni fa.

  • L'Africa nel cuore di Lucio Rosa (28.10/27.11.2016)

      In ventisei scatti selezionati, il regista, fotografo e produttore veneziano Lucio Rosa ha immortalato alcuni gruppi etnici di Congo, Kenia, Etiopia, sempre meno numerosi e probabilmente in pericolo di estinzione.

    Sono i Dassenech, i Pokot, gli Hamer, i Babinga che popolano la mostra fotografica "Con l'Africa nel cuore" che, inaugurata il 28 ottobre 2016 a Licodia Eubea (Catania), si potrà ancora visitare sabato 26 e domenica 27 novembre dalle 17 alle 21. L'evento è contestuale all'apertura della VI edizione della Rassegna del Documentario e della Comunicazione archeologica di Licodia Eubea (Sicilia) (vedi https://archeologiavocidalpassato). Nella foto, il regista con il direttore artistico.

    La Rassegna si chiuderà con un bilancio positivo, dichiarano i direttori artistici Lorenzo Daniele e Alessandra Cilio, mentre è già stato consegnato al toscano Piero Pruneti, direttore di Archeologia Viva, il premio "Antonino Di Vita". Questo archeologo siciliano di fama internazionale, scomparso nel 2011, ha sempre visto in Licodia Eubea il suo "luogo dell'anima".

    Invece il luogo dell'anima di Lucio Rosa è sempre l'Africa, soprattutto da quando, negli anni '80 vi realizza reportage cinematografici e fotografici su incarico delle Agenzie delle Nazioni Unite. Così, le etnie rappresentate in questa mostra rivivono per i nostri occhi e cuore, grazie alle immagini di Lucio, il loro speciale, millenario, prezioso rapporto simbiotico con l' ambiente da cui sono nate e in cui cercano ancora di sopravvivere, malgrado (o forse con) il turismo e le "ruspe" del progresso. (M.C.G.)

  • Libia 2: Il "ragazzo" con la Nikon

      Con questo film, Il ragazzo con la Nikon * (vedi Libia 1), ovvero Libia, antiche architetture berbere, lo sguardo e la macchina fotografica di Lucio Rosa (archeologo, esperto di preistoria ed etnografia) si sofferma soprattutto su Ghadames, la romana Cydamus. Le prime notizie storiche risalgono al Regno di Augusto; fu occupata da Lucio Cornelio Balbo, diventando il punto più meridionale dell'impero romano, avamposto contro le tribù locali, Getuli e Garamanti. I Bizantini vi portarono il Cristianesimo e anche un vescovado. Poi nel VI secolo fu occupata dagli Arabi, che portarono l'Islam... ma l'atmosfera dell'antica città berbera è rimasta, coservata dagli anziani. Ghadamès è divisa in sette quartieri collegati ma autonomi, con propri edifici pubblici e mura; la sabbia si infiltra nelle fessure, nelle scarse aperture, si deposita nel viottoli. Così "il ragazzo con la Nikon" fa rivivere gli antichi quartieri e mercati, le ricche dimore, le torri e i minareti, i magazzini-fortezza per conservare i cereali, il labirinto di stradine sapientemente orientate per i venti e la luce. Incontra i rari passanti, che scivolano via quasi al buio, visita le abitazioni, ammira gli oggetti, le pareti bianche di calce con disegni geometrici  berberi e simboli esoterici, sale sulle terrazze delle case, sotto il cielo, il regno delle donne.

    Poi gli scatti immortalano il villaggio di Fursta: stretti sentieri si arrampicano sulle pendici del Jebel Nafusha, dove molti Berberi si installarono nel VII secolo in fuga dall'invasione araba. Case diroccate, porte divelte, un frantoio, una bianca  moschea che risalta  contro la  nuda montagna; all'interno, le colonne allineate, dai capitelli bizantini recuperati, reggono ancora la volta dell'oratorio. A Gsar al-Haj restano poche testimonianze, a parte lo straordinario "castello berbero", costruito nel XIII secolo da Abdallah Abu Jatla. E' un originale magazzino a forma di anello, le cui mura contengono oltre cento cellette su più livelli. In basso, parzialmente interrato, si conservava l'olio: più in alto, raggiungibili con scale e passaggi sopraelevati, le altre derrate alimentari.

    Anche la ricca oasi di Derdj è in rovina; l'imponente fortezza controllava dall'alta falesia a strapiombo sulla pianura il traffico di merci tra l'Africa Nera e il Mediterraneo. A Nalut invece è ben conservato il granaio per immagazzinare cereali e olio, una magnifica costruzione fortificata quattro secoli fa contro i Turchi. Infine Gsar Gharyan, a 600 metri di quota, con il suo "castello delle grotte". Le più antiche tribù berbere del'altopiano di Nafusah erano troglodite e scavavano case nel terreno alla profondità di 8-10 metri per proteggersi dal caldo e dal freddo: una serie di stanze e magazzini non più abitati, ma ancora oggi visitabili.

     *Regia, fotografia, montaggio, testi: Lucio e Anna Rosa- Durata: 30'  - Formato: Full HD 16:9

    © Studio Film Tv (pubblicazione foto gentilmente autorizzata dall'Autore)

  • Notizie dal Niger (maggio 2017)

    L' ASSOCIAZIONE TRANSAFRICA SVILUPPO* di Firenze ci invia notizie ricevute da Aboubacar, responsabile del Foyer d'accueil  ILMI di Niamey, uno dei progetti in cui Transafrica è impegnata da anni con i fondi raccolti grazie a eventi culturali, donazioni e 5x1000. Questa casa di accoglienza, aperta nel 2012, promuove la scolarizzazione dalle medie al liceo di giovani dei due sessi tra i 14 e i 20 anni, provenienti principalmente da una località a est di Agadez, Tchintaborak.  
    I giovani accolti nella casa, a condizioni accettabili per vitto e alloggio, ricevono anche vestiario e forniture scolastiche, e sono seguiti negli studi da un tutore.  
    Dopo una breve descrizione anche fotografica della vita e delle attività del Foyer, Aboubacar si presenta con queste parole:
     
    "Gérant du foyer d'accueil ILMI, il est l'âme de ce projet. Depuis la création du foyer en 2012, Aboubacar parcourt la France et l'Europe, pour tisser des liens avec des associations et des ami(e)s qu'il a rencontré soit au Niger, soit en France ou en Italie.
    Infatigable, chaque année, il part avec son sac de bijoux et d'artisanat réalisés par les artisans de la Coopérative Tafolt, dont il est le secrétaire, et dont une partie des ventes sert à financer le foyer d'accueil. Enfant d'une famille nomade, la vie a fait qu'il a eu la chance d'aller à l'école, il a bien compris l'importance aujourd'hui de la scolarisation des enfants pour le développement des zones nomades, où la vie est très difficile.
    Aboubacar parle français, il sait écrire et se servir d'un PC pour envoyer des mails ou se connecter à Facebook. Lorsqu'il n'est pas à Niamey pour s'occuper du foyer, il parcourt aujourd'hui son pays dans les zones où la "folie de l'or" fait rage : avec curiosité, il filme, photographie, interroge les orpailleurs : un travail de recherche qui le fait devenir conférencier pour des amis chercheurs et géographes.
    Sur sa route en France, grâce au covoiturage, il croise Guillaume Gendron un journaliste; de cette rencontre naitra un article paru dans le journal Libération, puis une interview dans une émission sur Arte. Mais au milieu de toutes les multiples activités qu'il développe, son principal objectif c'est bien le foyer, les enfants à scolariser, le rôle qu'il s'est donné, humblement, pour son passage sur terre. Une vie de nomade, toujours, ancrée dans son époque malgré les difficultés, les obstacles et les frontières à franchir.
    Une vie qu'un jour, qui sait, il écrira lui même sur le papier."

    *Associazione di solidarieta' internazionale per il volontariato nella cooperazione partenaria allo Sviluppo Umano nel Nord e nel Sud del Mondo
    Via Fiume, 11 - I-50123 FIRENZE
    Tel: +39-055-430420 +39-348-3973603
    Fax: +39-055-430420
    Email: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. 
    Web: http://www.associazionetransafrica.org 
  • Charles de Foucauld: cent'anni dalla scomparsa

      Al Pime di Milano (via Mosé Bianchi 94) si parlerà mercoledì 12 ottobre 2016 (ore 21) dell'attualità di Charles De Foucauld a cent’anni dalla sua morte.  "Sorella ANTONELLA FRACCARO delle Discepole del Vangelo, grande conoscitrice del “Fratello Universale”, cerca di tradurre nella quotidianità della sua vita, insieme alle consorelle, la spiritualità di De Foucauld, declinata in uno dei tanti «piccoli nidi di vita fervente e laboriosa» che sono nati dalla sua ispirazione, a servizio di Dio nell’adorazione eucaristica e nell’annuncio rispettoso e discreto del Vangelo." Il suo intervento, precisa il Centro Missionario, si inserisce nel ciclo di incontri dell’OTTOBRE MISSIONARIO PIME 2016 sul tema: “FRONTIERE. PERCORSI DI RIFLESSIONE AI CONFINI DELL’ESISTENZA”.

    Inoltre, sabato 3 dicembre, si terrà a Milano presso la Caritas Ambrosiana (via S.Bernardino 4, ore 10,30) un convegno in ricordo del "piccolo fratello universale".

  • Etiopia 2020: acqua e fuoco (2)

     

    DIGA SUL NILO AZZURRO - Il riempimento e' iniziato

         

    Cascate del Nilo Azzurro dopo l'uscita dal lago Tana (Foto MGC, 2012)   Queste Cascate, conosciute come Tis Issat o Tissisat in amarico (acqua fumante) sono situate nella prima parte del corso del fiume, circa 30 km dalla cittadina di Bahar Dar e dal Lago Tana.

    E' in costruzione avanzata in Etiopia, nello stato di Benishangul-Gumuz, a circa quindici chilometri a est del confine con il Sudan la diga “Grand Ethiopian Renaissance Dam” o GERD (in amarico : ህዳሴ ግድብ) sul le Nilo Azzurro. Anzi, è iniziato questa estate lo riempimento nonostante l'assenza di accordi con gli stati confinanti. Immagini satellitari catturate tra il 27 giugno e il 12 luglio 2020 ritraggono l'incremento dell'acqua nel bacino a monte della grande diga, come del resto ha dichiarato il ministro delle Risorse Idriche, dell'Irrigazione e dell' Energia etiopico, Sileshi Bekele. Quello della diga è un progetto da circa 5 miliardi di dollari che, una volta ultimato, darà luogo alla centrale idroelettrica più grande dell'Africa, pari solo a quella di Inga, sul fiume Congo, nel Congo Kinshasa (che funziona però al 10/15 per cento della sua capacità). Chiamata anche Grande Diga del Millennio, o diga di Hidase, questa diga etiopica a gravità avrà una potenza installata di 6.450 MW, l’equivalente di sei reattori nucleari.        

    Il Nilo Azzurro (in arabo Baḥr al-Azraq), dalle acque limpide in contrasto con il Nilo Bianco, ha origine dall'Altopiano Etiopico di origine vulcanica, presso il lago Tana. Mentre il Nilo Bianco (con cui confluisce a Khartoum in Sudan, formando il Nilo) ha una portata quasi costante nel tempo, il Nilo Azzurro è caratterizzato da un regime irregolare, alla base delle piene fluviali annuali che hanno segnato la storia dell’Egitto fin dall’antichità. La costruzione e la messa in funzionamento di questa diga hanno quindi alterato degli equilibri millenari e minacciano la stabilità tra i paesi che sfruttano le acque del fiume. Il particolare l'Egitto, la cui vita continua ad essere legata al fusso e deflusso del Nilo.

    Il progetto, già auspicato dall'ultimo imperatore d'Etiopia Hailé Selassié, e approvato una decina di anni fa dall'allora premier Meles Zenawi (che ha posto la prima pietra il 2 aprile 2011), ha subìto ritardi per lo scandalo che ha coinvolto Metec (industria etiope di armi, attrezzature militari e macchinari fondata nel 2010). Il paese ha bisogno di energia pulita, eventualmente da esportare, per diversificare la sua economia prevalentemente agricola, compromessa dalla siccità, e attualmente anche dalle migrazioni delle locuste.  I lavori, iniziati cinque anni fa, sono stati realizzati principalmente dall’italiana Salini Impregilo (senza gara d'appalto), che ha collaborato anche ad altri lavori idroelettrici in Etiopia, e specialmente alle dighe sul fiume Omo, nel sud.

         

    Il Nilo Azzurro a qualche km dalle cascate (foto MCG, 2012)

    I lavori sono stati eseguiti su entrambi i lati del fiume, che è stato deviato durante la stagione secca mediante canali sotterranei o tubature per consentire la costruzione dello sbarramento. Il fiume così scorre nei canali di derivazione ai lati del muro. Durante la stagione delle piogge, l'acqua in eccesso, che non può defluire nei canali, si aggiungerà al lago che va formandosi dietro la diga. Eventualmente saranno chiuse le valvole a barriera di alcuni canali per aumentare il livelli dell'acqua a monte. Come riportato sul sito di Salini Impregilo, una volta terminati i lavori, il  bacino avrà una lunghezza di 1,8 chilometri e una profondità di 155 metri, con una capienza di circa 74 miliardi di metri cubi d’acqua, che saranno sfruttati per produrre almeno seimila megawatt di energia elettrica. Il gettito annuo del Nilo Azzurro è di 49 miliardi metri cubi.

    L’opera è stata autofinanziata, mentre in passato la Banca Mondiale e altre strutture internazionali avevano rifiutato, per non innescare tensioni con i vicini Sudan e soprattutto Egitto (i trattati internazionale del 1929 e 1959 avevano stabilito che i volumi d’acqua del Nilo dovevano essere divisi tra Egitto e Sudan). Etiopia, Egitto e Sudan avevano anche stipulato un accordo sulla creazione di un comitato scientifico, incaricato di studiare l’impatto della diga. Gli esperti avevano consigliato che, una volta ultimato lo sbarramento, durante la fase di riempimento (si calcola che ci vorranno non meno di tre anni) l’Etiopia avrebbe dovuto consentire la prosecuzione di un gettito d’acqua pari a 35 miliardi metri cubi, mentre l’Egitto ne pretende 40. Tuttavia l'Etiopia negli scorsi mesi ha annunciato la volontà di portare a conclusione il progetto, anche senza un accordo con Egitto e Sudan. Una decisione che ha indotto l’amministrazione Trump a bloccare i fondi, ma in soccorso del primo  ministro Abiy Ahmed è intervenuta la Cina.

    Tuttavia, appena ripresi i colloqui sulla spartizione delle acque del Nilo, i due paesi hanno espresso opinioni ancora divergenti (Il Cairo del resto ha sempre espresso perplessità sulla GERD, temendo un'eccessiva riduzione della portata del Nilo). Si prevedono trattative a ripartire da zero per gli scienziati e i politici, con l’intento di creare una reazione a catena, e trovare un accordo con i Paesi coinvolti per un equo sfruttamento delle risorse idriche del Nilo, sia durante la fase di riempimento, già iniziata, che a regime.

          

    Lago Tana - Bahir Dar (Foto MCG, 2012) - Al tramonto - un pescatore , turisti -

    Il Nilo Azzurro nasce a Gish Abbai, un luogo sacro per la Chiesa etiope, con tre piccole sorgenti nel raggio di 20 metri, a 2 744 metri di altezza.  Il primo europeo a visitare il luogo fu il missionario cattolico spagnolo nel 1618. (vi sorge un venerato santuario). Questa sorgente si versa col nome di Lesser Abbai nel lago Tana.

     

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  • Togo, pozzi e trivellazioni

     

    La missione di Kolowaré è diventata, poco più di un anno fa, la Paroisse St Léon IX. Il nostro amico padre Silvano Galli (SMA, Società Missioni Africane - Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) da anni in Togo, ci comunica anche che qualche settimana prima era deceduto il decano di tutti i padri SMA del Togo, padre Jean Perrin, dopo 64 anni di missione in questo paese.

    Ma i missionari continuano a portare avanti il progetto "trivellazioni e pompe" grazie al sostegno del Novara Center. Senza acqua non c'è vita, ribadisce padre Silvano. E i villaggi vicini hanno già acqua in abbondanza. Nelle foto, gentilmente inviateci, l'équipe è al lavoro.

     

      Visite
     
    Soeur BéatriceBlandine
    Soeur RégineYayo

     
    Jean Marie
    PersonnelL'assistant Senanou
     
     
  • Scoperti utensili paleolitici in India

    I risultati dei lavori di un'équipe britannica (pubblicati sul quotidiano online The Independent) sembrano aggiungere nuove ipotesi alle teorie sull'evoluzione umana.

    Nel sito archeologico di Attirampakkam, nel sud-est dell'India (60 km da Chennai, Tamil Nadu) sono stati scoperti strumenti antichi di almeno 385.000 anni, epoca che coincide con il periodo in cui questa tecnologia sarebbe stata utilizzata per la prima volta dall'uomo moderno in Africa. Finora si pensava invece che L'India avesse conosciuto questa tecnica tra 140.000 e 46.000 anni anni fa, con la migrazione dall'Africa dell'uomo moderno. Questa scoperta anticiperebbe questa migrazione dall'Africa verso l'Asia ad almeno 400.000 anni fa; sarebbe quindi più antica di quanto si pensava? Oppure gli ominidi indiani di quell'epoca hanno sviluppato una propria cultura del Paleolitico Medio? E ancora: si tratta di uomini moderni o di Neandertaliani o di altre specie arcaiche?

      Rimangono quindi molti interrogativi, soprattutto  per la mancanza di resti umani associati alle scoperte. Anche perché in passato si era parlato di utensili di un milione e mezzo di anni! 

  • Gaudio tradotto in arabo

    Lo studioso e amico Vermondo Brugnatelli (linguista, docente universitario, ricercatore, esperto di lingua berbera) è venuto quasi casualmente a conoscenza di un libro di Attilio Gaudio tradotto in Arabo.  
                                                                                                                             
         
                                                                                                  
    Recentemente ha partecipato ad un convegno a Tokyo sugli Ibaditi (islamiici non sunniti nè sciiti, unico ramo sopravvissuto dei kharigiti, religione fondata da ‛Abd Allāh ibn Ibāḍ al-Murrī, in Mesopotamia nell'8° secolo).
     
    Qui ha incontrato dei berberi musulmani ibaditi dello Mzab (Sahara algerino) che gli hanno parlato di un "bel libro scritto da un italiano", di cui non ricordavano il nome, che parla delle donne di Ghardaia (città principale della valle dello Mzab), e in particolare di una berbera mozabita. E questo libro era stato perfino tradotto in arabo, e pubblicato a Beirut.
     
    L'autore è proprio Attilio Gaudio (anche se il nome scritto in stampatello sulla copertina è Caudio!) che ha scritto sessant'anni fa “La révolution des femmes en islam” edito da René JULLIARD, 30 rue de l'Université, Paris, 1957. Finora il libro non è mai stato pubblicato in italiano, ma esiste anche il testo in pdf dell'edizione araba.
    Esiste un altro libro di Gaudio sull'argomento, scritto parecchi anni dopo con la collega dell'Agenzia Ansa di Parigi Renée Pelletier:  "Femmes d'Islam, ou le sexe interdit" (editore DENOEL/GONTIER, 1980 - 19, rue de l'Unversité, Paris 7°, collection femme.)
  • La riscossa di Neandertal

    Nuove scoperte in Spagna sono destinate a rivoluzionare la narrazione dell'evoluzione umana. Anche perché sino ad ora si pensava che il simbolismo fosse comparso in Africa, come segno caratteristico dell'Homo sapiens, che lo trasferì più tardi in Europa con le sue migrazioni.

    "Nella preistoria è sempre una battaglia contro le vecchie idee", commenta Michel Lorblanchet (Centro nazionale della ricerca scientifica francese, CNRS, professore emerito all'università di Tolosa), che ha partecipato a queste ricerche, ora pubblicate sulla rivista Science. Già nel 2012 l'esperto di arte rupestre aveva sostenuto che le pitture più antiche nelle grotte europee erano state scoperte in Spagna, e avrebbero più di 40.800 anni. Rimaneva aperta però la questione se quest'arte rupestre del Paleozoico sia stata o meno opera di uomini di Neandertal. 

    Un'équipe internazionale (università di Southampton, istituto Max Plank di antropologia evolutiva, CNRS francese ...) ha esplorato, studiato ed eseguito datazioni in tre grotte spagnole: la Cueva de la Pasiega (Cantabria), di Maltravieso (Estramadura) e di Ardales (Malaga).

    1) Cueva de la Pasiega, Cantabria (foto P. Saura)

      

    Questo motivo a forma di scala stilizzata è in realtà un "segno" secondo l'antropologia culturale, un simbolo non riconoscibile dalla sola esperienza, ma il risultato di una convenzione sociale. Le linee rosse verticali risalgono quasi con certezza a 64.000 anni fa.

    2) Cueva Maltravieso - Lo stesso si può dire per questa mano dipinta in negativo (a sinistra in situ, a destra fotografata con tecnica apposita), età minima 66.700 anni.

     

    3) I Neandertal coloravano anche le grotte. Nella Cueva de Ardales (Malaga), le colorazioni in ocra rosso, sono state datate con il metodo uranio-torio: 66.000 anni

      

    4) Infine nella Cueva de Maltravieso (Càceres- Estremadura) (Foto H.Collado), troviamo mani incise e dipinte (66.000 anni)

     

    Più di sessantaseimila anni! La capacità squisitamente umana che unisce simbolismo, intelligenza creativa e linguaggio sarebbe forse nata molto tempo prima di quanto si pensasse?  Eppure gli umani moderni (Homo sapiens sapiens) avrebbero abitato l'Europa solo circa 20.000 anni fa (per alcuni 40.000, provenienti da est), mentre l'Homo erectus avrebbe lasciato l'Africa 1,8 milioni di anni fa. Solo l'Homo sapiens neanderthalensis, ritenuto molto primitivo, abitava l'Europa.  Allora chi può aver realizzato queste opere? Le pitture, rosse o nere, con rappresentazioni di animali, punti, figure geometriche con mani (forse anche posteriori alla datazione) si trovano in tre grotte distanti tra loro settecento chilometri; il che indica un sentire comune, la percezione di un simbolo, la "lettura" condivisa da umani intelligenti.

    Questo significa che, se il sapiens moderno non c'era ancora, l'arte rupestre del Paleolitico è (sarebbe) da attribuirsi ai Neandertal, quell' Homo sapiens neanderthalensis che era l'unico abitante dell'Europa all'epoca (insieme ai Cro-Magnon provenienti però dal lontano oriente). Qualche studioso avanza già un'ipotesi: si tratterebbe di una sola specie di Homo sapiens con flusso genetico attraverso i continenti, tra "cugini", il sapiens antico e quello moderno. Del resto un'altra vecchia idea è crollata: i Neandertal non sono completamente scomparsi, sostituiti da H. sapiens sapiens. Oggi ciascuno di noi ha nel DNA il 2-3% di genoma neandertaliano, ma non tutti hanno la stessa porzione - quindi in totale si calcola che sia presente il 40-50% di DNA di Neandertal nell'umanità moderna.

    Come afferma uno dei principali studiosi di questa ricerca, Dirk Hoffmann (Istituto Max Planck)," La nascita della cultura materiale simbolica ...è uno dei principali pilastri del nostro essere umani", e finora era stata attribuita ai Neandertal in Europa di circa 40.000 - 50.000 anni fa, e solo limitatamente agli ornamenti corporei.

    Ma i primi manufatti simbolici, risalenti a 70.000 anni, sono stati trovati in Africa, e dall'Africa si stavano man mano diffondendo in tutta l'Europa presso i suoi abitanti dell'epoca: i Neandertal. Che non possono più essere considerati brutali e rozzi, incapaci di avere un comportamento simbolico. Invece bisogna riconoscere che sapevano creare immagini con un senso, scegliere i luoghi adatti, pianificare la sorgente di luce nella grotta, mescolare i pigmenti.
    (M.C.G.)

     

  • Niger, rapimento di un missionario

    A due mesi dal sequestro di padre Maccalli non c'è nessuna notizia certa su dove si trova, se è vivo e sui passi intrapresi per liberarlo. Un altro appello è stato lanciato dalla SMA (Società delle Missioni Africane, Genova, www.missioniafricane.it) a tutti coloro che hanno a cuore l'opera dei missionari>:

        "Un nostro missionario, padre Pier Luigi Maccalli, (originario della diocesi di Crema, già missionario in Costa d'Avorio) da più di un mese è nelle mani di ignoti rapitori, i quali non si sono fatti ancora vivi. Il rapimento è avvenuto nella sua missione di Bomoanga, nel sud-ovest del Niger, a pochi chilometri dalla frontiera con il Burkina Faso. Padre Gigi, come qui tutti lo chiamano affettuosamente, in undici anni ha fatto molto per la popolazione: scavo di pozzi, costruzione di scuole e ambulatori medici, formazione per i giovani contadini, istruzione degli adulti" mettendo insieme, come riferisce l'Agenzia Fides, "evangelizzazione e promozione umana; attento all'inculturazione, ha organizzato momenti di iniziazione in relazione con la circoncisione e l'escissione femminile. Può essere uno dei moventi per il rapimento, giunto una settimana dopo il suo rientro da un tempo di riposo in Italia». Infatti, attento alle problematiche legate alle culture locali, aveva organizzato incontri per affrontare temi sociali e contrastare pratiche legate alle tradizioni, come le mutilazioni genitali.

    La Missione cattolica dei Padri SMA si trova in zona Gourmancé (Sud-Ovest) alla frontiera con il Burkina Faso, nella prefettura di Makalondi, e a circa 125 chilometri dalla capitale Niamey. La Missione è presente dagli anni '90, e i villaggi visitati dai missionari sono più di venti, di cui dodici con piccole comunità cristiane, distanti dalla missione anche oltre 60 chilometri. "Da qualche mese la zona si trova in stato di urgenza - spiega padre Mauro Armanino, missionario SMA a Niamey - a causa della presenza di terroristi provenienti da Mali e Burkina Faso».  Testimoni riferiscono che uomini armati in moto hanno fatto irruzione nella missione, "lo hanno preso e portato via; il confratello indiano che vive con lui è riuscito a mettersi in salvo". E' plausibile che presunti jihadisti siano attivi nella zona, dove la povertà è strutturale, i problemi di salute e igiene enormi, l’analfabetismo diffuso e la carenza di acqua e di strutture scolastiche ingenti. La mancanza di strade e di altre vie di comunicazione, anche telefoniche, rendono la zona isolata e dimenticata.

    Dopo il rapimento – riferiscono dalla Curia della SMA – padre Maccalli è stato probabilmente portato al di là della frontiera. Nella confinante regione del Burkina Faso c’è, infatti, una vasta foresta in cui hanno le proprie basi i miliziani jihadisti. Attualmente la diocesi di Niamey ha inviato un gruppo di sacerdoti nel villaggio di padre Maccalli per verificare i fatti e per prendere contatti con la comunità locale. Un altro religioso italiano di una parrocchia vicina è stato fatto allontanare e ora è al sicuro a Niamey”.

    Poema per p. Gigi,
    di p. Paco Bautista, missionario SMA spagnolo

    Algún día, en alguna parte,
    todo será de otra manera.
    Mientras tanto
    bregamos con nuestras heridas,
    convivimos los miedos,
    los fracasos,
    gestionamos nuestros fantasmas
    en estos tiempos de crisis…

    Pero también
    sacamos lo mejor de nosotros
    porque creemos,
    contra toda evidencia,
    en la bondad innata
    de lo más sagrado
    que cada uno lleva dentro.

    Y apostamos por un mundo
    sin fronteras ni exclusiones,
    donde la verdad
    es el punto de salida
    para hacer nuevas todas las cosas.

    Porque algún día,
    en alguna parte,
    todo será de otra manera.

    Fraterno siempre

     

     

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