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2009-10-30 - La morte di Claude Lévi-Strauss, avvenuta a Parigi il 30 ottobre 2009 per una crisi cardiaca, non è solo la scomparsa di un grande antropologo ed etnologo.

Segna anche la fine di tutta una generazione di intellettuali, soprattutto francesi, che nel secolo scorso ha gettato le fondamenta e costruito una certa concezione della cultura e del mondo. Che merita di risorgere dalle ceneri di una società smarrita tra la perdita di valori e la violenza, la crisi economica e l’incertezza del futuro. La sua luce non può spegnersi, ma deve rimanere base e guida del pensiero strutturalista in molteplici campi: la lingua e il linguaggio, i legami familiari, il tabù dell’incesto, la famosa pensée sauvage, il triangolo semantico (le cru, le cuit et le pourri). E ancora: le razze e la storia, i miti e i riti, le maschere, il totemismo. Lungi dall’essere soltanto un pensatore freddo e razionale, è conosciuto anche da un pubblico più vasto come l’autore del libro Tristes Tropiques (1955), in cui il lavoro etnografico, la filosofia e l’autobiografia diventano prosa poetica.

Nato a Bruxelles da genitori francesi, il 28 novembre 1908, cresce in un ambiente artistico e culturale, poiché il padre e due zii sono pittori. Compie gli studi superiori a Parigi: giurisprudenza, lettere, filosofia. Ma, dopo le sue prime ricerche sul terreno presso gli Indiani del Brasile, prosegue gli studi in direzione delle scienze umane, ampliando gli orizzonti dell’antropologia con i contributi di altre discipline. Così si serve della linguistica di Saussure e Jakobson per definire l’unità parentale minima, della matematica di André Weil per applicare l’algebra alle leggi del matrimonio, o della filosofia di Hegel per l’organizzazione del pensiero che, come il mito, procede secondo delle opposizioni binarie e la loro unificazione (tesi, antitesi, sintesi) rendendo possibile il significato. Ammiratore di Wagner, Claude Lévi-Strauss paragona l’analisi dei miti allo studio di una grande partitura orchestrale. Professore onorario al Collège de France (dove occupa la cattedra di antropologia sociale dal 1959 al 1982), direttore del Laboratorio di antropologia sociale del CNRS (Centro Nazionale francese della Ricerca Scientifica) e della scuola di studi superiori scientifici e sociali (EHESS), membro dal maggio 1973 (e primo centenario) dell’Académie française, Claude Lévi-Strauss ha dunque lasciato una preziosa eredità multiforme. Gran sacerdote dello strutturalismo antropologico ed etnologo alla “ricerca del tempo perduto”, è stato avvicinato a Proust da Roger Bastide. Mentre Georges Balandier ha rilevato la grandezza e le schiavitù del suo lavoro, che “mira a ritrovare l’unità e la permanenza al di là della diversità rivelata dai viaggi attraverso lo spazio e il tempo”.

All’annuncio della sua morte, numerosi ritratti di questo « filosofo naturalista » sono comparsi sui giornali francesi: « figura solitaria, ma imponente » (Maurice Block), « non dissociava la difesa della diversità culturale da quella della diversità naturale » (Roger-Pol Droit), mentre il suo messaggio più sacro rimane l’affermazione che tutte le culture « hanno la stessa forza, la stessa dignità» (Robert Maggiori). Françoise Héritier, la sua collaboratrice di sempre, che gli è succeduta al Collège de France, ricorda anche l’uomo Claude: « una persona amica, di fiducia », con « quegli occhietti penetranti che vi mettevano disarmati, nudi: quando si era di fronte a lui ci si disgregava. E ci voleva molto coraggio per ricomporsi…». Ma la principale eredità risiede in questa verità: « noi siamo tutti molto diversi, è vero, ma possiamo comunicare e capirci, perché le nostre strutture mentali funzionano nello stesso modo». La morte di questo eminente antropologo e filosofo naturalista è avvenuta duecento anni dopo la nascita di Charles Darwin e centocinquanta dopo la pubblicazione della sua opera capitale, L’origine des espèces. Sul planisfero è tracciata la rotta del viaggio di Darwin sul brigantino Beagle.